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raccontando storie...
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Tramonta il sole su Punta Penia - Marmolada
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Premessa
Il testo che segue, frutto della mia personale rielaborazione di
contenuti
inconsci a me per primo non del tutto chiari, non è di facile
lettura.
La seconda parte, contenente le metafore da cui ho tratto la mia vision
e
la mia mission, è la più fluente e comprensibile, ma
risulta
in parte oscura se non anticipata dalla "Nota metodologica", scritta
parte
in filosofese e parte in psicologhese. Non sono riuscito a fare di
meglio:
talvolta è necessario un linguaggio complicato per spiegare cose
complicate.
E, del resto, non è indispensabile leggere quanto segue, che ho
qui
riportato solo come esempio di un processo di estrazione di vision e
mission.
Agli ardimentosi lettori, buona lettura.
Nota metodologica
Il processo per la creazione di una vision e di una mission (personale,
così
come di un gruppo o di un'organizzazione) prevede che, in una prima
fase,
ci si affidi alla guida di metafore affioranti dall'inconscio, dalle
parti
più antiche e più sagge (perché frutto di millenni
di
evoluzione), della nostra mente (1
- Nota! Per leggere i riferimenti bibliografici, cliccare sul numero
linkato
- Un ulteriore click sul numero o sul nome degli autori nella finestra
che
si aprirà collegherà alla citazione completa del volume
in
bibliografia).
Purtroppo l'inconscio può comunicare i propri orientamenti solo
in
maniera approssimativa, tramite costellazioni di immagini, suoni,
parole,
sensazioni che, considerate nel loro complesso, hanno un significato,
mentre,
al loro primo manifestarsi, si presentano spesso insensate, fuori
misura,
grottesche, sentimentalmente enfatiche, retoriche quando non
addirittura
comiche.
Queste caratteristiche delle comunicazioni provenienti dal profondo
sono
determinate dall'interazione di almeno due fattori.
In primo luogo ciò avviene perché si tratta di
riproduzioni
olografiche (multidimensionali) di processi mentali che racchiudono in
sé
modelli di ruolo, quando non intere strutture relazionali o addirittura
linee
evolutive (destini), conservate nella memoria ancestrale in quanto
rivelatesi
in passato altamente adattative (servivano a sopravvivere) e, per
questo,
collegate a stati emotivi molto intensi.
Inoltre esse si originarono per lo più in una fase pre-verbale
della
specie umana, o in seno a società i cui significati fondativi
erano
costituiti da miti (ed espressi tramite forme di linguaggio e di
pensiero
mitico). Ciò fa sì che, in particolare in una
società,
come la nostra, caratterizzata dal dominio di un linguaggio e di un
pensiero
tecnologico-razionali, tali costellazioni abbiano poche
possibilità
di emergere alla coscienza, in quanto mantenute a livello inconscio per
la
loro non agevole integrabilità nel nostro attuale sistema di
significati
(2).
Questa attiva operazione di blocco ad opera della coscienza (per certi
versi
il rappresentante del sistema sociale in ciascuno di noi) ha l'effetto
di
deformare le caratteristiche dei contenuti psichici in questione e di
impedirne
l'evoluzione e l'adattamento al mondo esterno, esattamente come
avverrebbe
ad un bambino relegato per anni in una casa fino a diventare adulto
senza
alcuna possibilità di conoscere ciò che esiste "fuori" (3).
A motivo di ciò, qualora a essi sia concesso di manifestarsi,
è
piuttosto probabile che, in una prima fase, si verifichi quel processo
cui
Jung dava il nome di "inflazione dell'io" (l'io che, invaso da
contenuti
inconsci ed archetipici non elaborati ed emotivamente carichi, si
"gonfia",
diventa l'archetipo, si divinizza senza valutare minimamente le proprie
reali
"dimensioni", qualunque cosa questo significhi (4).
Può essere rischioso seguire le indicazioni inconsce così
come
si manifestano: non viviamo più in un mondo nel quale è
necessario
cacciare per vivere o in cui si è sotto il costante rischio di
essere
predati. Sarebbe tuttavia altrettanto insidioso non riconoscere il
valore
di senso, significato e orientamento per la propria vita (e, in certi
casi,
anche per quella altrui) in esse nascosto.
In fondo, in risposta agli inediti problemi comunicativi e
organizzativi
che ci troviamo a dover gestire in un mondo sempre più
complesso, è
probabile trovare qualcosa di utile nell'immane magazzino di strategie
evolutive
che ci portiamo appresso a livello inconscio. Già imitiamo la
natura
per la realizzazione di sofisticate e innovative tecnologie.
Può
essere altrettanto valido farlo allo scopo di individuare modelli
organizzativi
o procedurali funzionali al nostro mondo in frenetico cambiamento.
le mie metafore
Nel realizzare il processo tra me e me, le cose si svolsero proprio
come
previsto: in un primo momento si manifestarono contenuti emozionalmente
molto
carichi, espressi in un enfatico stile tardo-romantico, di cui sono
ancora
presenti tracce nelle rielaborazioni che riporto. Ciò nonostante
da
essi ho tratto suggerimenti che trovo tutt'ora di indiscutibile valore.
Il materiale emerso è relativo a due costellazioni di contenuti,
abbastanza
omogenee al loro interno, ma in apparenza non molto l'una con l'altra.
Tuttavia
mi si presentarono collegate, cosicché fin dall'inizio fui
indotto
a considerarle come parte di un più ampio sistema di pensiero
inconscio,
arrivando alle conclusioni che passo a descrivere.
La prima costellazione ha a che fare
con
mio zio Pietro che, dopo alcuni anni vissuti emigrando come muratore a
Bolzano
e in Svizzera, era tornato al paese d'origine (in alta Carnia) e si era
dedicato
al lavoro dei campi in collaborazione, antagonistica e al tempo stesso
vivace,
con la moglie, mia zia Ennia, sorella di mio padre.
Io passavo spesso l'estate in Carnia. Mi piaceva stare lì con
loro
e fare la "dura" vita del contadino di montagna part time.
Certe sere, mentre ci riposavamo da una giornata di fatiche passata
a
rivoltare fieno nei prati, lo zio mi raccontava di come, in anni
già
allora lontani, in quella stessa ora del giorno, quando il sole
trasfigura
con i colori più incredibili le montagne e il cielo, fosse
possibile
sentire le donne tornare a casa cantando.
Oggi rileggo quel ricordo come la testimonianza di un mondo ormai
appartenente
al mito, le cui componenti avevano trovato un loro difficile (per
quanto
armonioso) equilibro in secoli di confronto e talvolta di contrasto
reciproco.
Io avevo fatto a tempo a contemplarne gli ultimi frammenti nello
scenario
che il paese e i terreni circostanti offrivano se guardati dal versante
opposto
della valle: un mosaico, ipnotico e emanante una sottile malìa,
di
campi, prati, boschi, stavoli, villaggi, rocce, segnato dal reticolo
nero
dei sentieri. Sopra dominavano il cielo azzurro e i bianchi cumuli
torreggianti
delle nuvole.
Questo primo blocco di contenuti ha dato origine all'idea centrale
della
mia "visione": un mondo come "casuale" opera d'arte, frutto
dell'inconsapevole
azione congiunta di più soggetti in interazione reciproca.
Un'opera
d'arte collettiva, composta in stile fuzzy.
Lo spunto circa il "come" (la mia mission) mi
venne dalla seconda
costellazione
di ricordi, qualche modo misterioso associati alla prima.
Il primo di tali ricordi riguarda un
consulto
che chiesi per alcuni problemi cronici di salute. La dottoressa,
un'esperta
di metodiche non convenzionali, usando una tecnica che riconobbi subito
come
di marca “PNL” (utilizzata a dire il vero con scarsa precisione), mi
chiese
di fingere di pensarmi completamente guarito. In un lampo (al momento,
nel
mio normale stato di coscienza, riuscivo a visualizzare consapevolmente
solo
brevi frammenti di scene), mi vidi mentre arrampicavo. Ricordo anche la
via
sulla quale ero: la Taldo - Nusdeo al Picco Luigi Amedeo. Sarei stato
bene
se (o quando? O a patto che?) avessi arrampicato.
Il messaggio non era per niente chiaro.
Tuttavia, da allora l'arrampicata è per me metafora di qualunque
processo
di evoluzione in ambito sistemico, possibile solo a partire da una
considerazione
attenta di tutti i fattori in gioco (allenamento, grado di stress,
tecnica,
"testa", attrezzatura, compagni, meteo, ecc.) e con un'attenzione
particolare
rivolta ai segnali di disagio e alla loro accurata gestione (guai a far
finta
di non percepire i dolori che segnalano l'iperaffaticamento o gli stati
d'animo
particolarmente negativi, indice di demotivazione e presagio di... guai
in
arrivo). Imparai che essi potevano essere trasformati in occasioni per
ampliare
le proprie potenzialità e che in questa ricerca i risultati
parevano
arrivare solo quando davo il meglio di me nel costante tentativo di
superare
i miei limiti (il miglioramento in arrampicata deriva da un mix di
allenamento
fisico, sperimentazione motoria, disposizione mentale a testare i
propri
limiti e molto altro ancora) in vista della realizzazione di un compito
che
non poteva essere meno che entusiasmante, qualunque esso fosse (una via
impegnativa
in falesia o un grande itinerario in montagna).
Da questo insieme di pensieri ho tratto anche l'essenza del mio compito
come
professionista e le regole che ritengo fondamentali per eseguirlo:
aiutare
a gestire realtà complesse, operando nel rispetto delle varie
componenti
in gioco, con metodo, disciplina, attenzione anche agli aspetti meno
piacevoli
e attraenti delle situazioni e con la disponibilità a sfidare i
propri
limiti.
Non è un caso se il mio logo è costituito da un omino che
si
inerpica un muro ben oltre la verticale e se il sito contiene una
sezione
così ampia dedicata all'arrampicata.
Tutto ciò porterà al mondo che desidero (e che, presumo,
desiderino
anche molti altri)?
Non lo so.
Tuttavia mi fa ben sperare quanto accadde alla fine dell'estate 2003,
al termine
dell'ultima salita alpinistica della stagione, un episodio il cui
ricordo
si intrufola costantemente nel flusso di coscienza quando penso alla
mia
mission e che non riesco a non considerare una specie di presagio.
In quei giorni, assieme ai compagni di mille disavventure sulle
crode
(Giovanni Mostarda e Ralf Steinhilber, in rigoroso ordine alfabetico)
si
decise per un'ultima puntata in Dolomiti.
Era già settembre inoltrato. Tuttavia confidavamo che
l'incredibile
meteo di quell'estate ci avrebbe ancora una volta favorito. E fu
così.
All'alba di una domenica ormai lontana, eravamo lì, alla base
della
parete, sotto lo spigolo dell'impressionante pilastro di Punta
Penìa,
in Marmolada, soggiogati da quel muro prima appoggiato, poi verticale e
strapiombante,
i cui gialli, in alto, occhieggiavano minacciosi.
Dopo qualche momento di esitazione iniziale (termine aulico per
indicare
l'inevitabile attività di svuotamento intestinale che precede
ogni
arduo cimento), ci lanciammo in quell'avventura che ci portò ad
attraversare
come temporanei visitatori quel labirinto di pietra dalla mostruosa
architettura
che una mano disumana sembrava aver plasmato con placche, fessure e
camini
per creare, si sarebbe detto, una specie di varco sulla dimensione
onirica
dell'essere.
Ralf e il sottoscritto a Punta Penia, messi
alla prova dal vuoto attraversato.
Giovanni è dietro l'obiettivo,
stravolto quanto noi
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Resistemmo
più volte alla voglia di tornare indietro e demmo effettivamente
quanto
di meglio in esperienza, tecnica e forza avevamo accumulato in anni di
vagabondaggi
per le montagne (tutti i tiri in libera, io con un punto di riposo
sull'ultima
lunghezza impegnativa) e, in dieci ore, arrivammo sulla tondeggiante
cima
della Marmolada di Penìa.
Nel cielo volteggiavano parapendii. A fianco del bivacco sventolava,
ridotta
a brandelli, una multicolore bandiera della pace.
In quel momento, stravolto dalla fatica, forse per il tossico effetto
delle
endorfine, nella cerchia delle Dolomiti dispiegate di fronte a me alla
gialla
luce del tramonto settembrino, vidi brillare come una specie di
eternità.
|
Sarà realmente così?
Realmente dopo aver attraversato con disciplina e impegno il terrore e
la
meraviglia della parete (la vita con i suoi misteri e i suoi
imprevedibili
scherzi) si contemplerà con stupore ciò che è
oltre?
Per saperlo, non resta che provare.
Chi vivrà, vedrà.