Una strana estate
Cronache alpinistiche di inizio millennio

Mercoledì 1 gennaio 2003
Che cosa fa di solito la gente normale, il primo dell’anno?
Beh, di certo non si alza al sorgere del sole per andare ad arrampicare in solitaria.
Neanch’io, del resto.
Faccio cose simili, intendo.
Ma, questa mattina, quando alle sette in punto sono stato svegliato da una squillante voce interiore che gridava parole incomprensibili, mentre gli occhi spalancati rifiutavano in ogni modo di chiudersi, non ho avuto alternative. Dopo qualche vano tentativo di riaddormentarmi, mi sono alzato e ho guardato fuori.
Il tempo era bello, una delle poche giornate serene di questo umido Natale 2002.
A quel punto la voce, ridottasi a vocina, si è di nuovo fatta sentire: “Dai, prendi su le tue quattro carabattole da climber e vai. Brentino ti aspetta”.
Ecco perché sono qui, solo soletto, su un muro ombroso e umido della Bastionata del Boomerang, a ripetere Occhio a Pinocchio, l’unica via accettabilmente asciutta (e accettabilmente facile, per un solitario arrugginito come me) su tutta la muraglia.
Un picchio muraiolo col suo stile di volo ondeggiante si posa ora qua e ora là sullo strapiombo che sto salendo. E un rondone si lancia in vertiginose picchiate alle mie spalle.
Che strano inverno… caldo e piovoso.
Avrei voglia di scendere. La temperatura è mite, ma la via va a finire proprio sul versante nord est del pilastro, un freddo muro grigio dall’aspetto ostile.
Tuttavia la solita vocina insiste: “Dai, ancora un tiro. Magari poi migliora”.
E così io proseguo infreddolito, metro dopo metro, su quella parete dagli appigli bagnati e dagli spit nascosti.
Sul tiro di 6b+ mi appendo quasi ad ogni protezione. Con la testa non ci sono. E, con le schifezze che ho mangiato ieri, il corpo è goffo e appesantito. Riesco comunque a finire il tiro e a concludere anche la via, superando l’ultima lunghezza, 6b sostenuto, con improbabili movimenti da contorsionista.
Mi calo e arrivo alla base della parete nella nebbia che, eccezionalmente, oggi sta invadendo la valle dell’Adige.
Per contrasto la mia mente è limpida, lucida, pulita.
“Visto?”, commenta la vocina. “Avresti forse voluto startene tutto il giorno a casa a guardarti l’ombelico?”
“Che rottura di palle!”, penso.
Certo, ha le sue ragioni. Però starsene tutto il giorno in panciolle, almeno a Capodanno, non sarebbe stato male…
Mmm, meglio non farsi sentire...
Non vorrei essere cacciato a forza, che ne so, su Annachiara e finire la giornata in parete calandomi al buio senza frontale.

“Ah, quest’estate!”, rimugino scendendo. “Me ne fossi stato di più a casa, a quest’ora non dovrei negoziare lungamente per un po’ di tranquillità con petulanti voci interiori”.
Già, quest’estate…

Domenica 26 maggio 2002
Finalmente la prima salita in ambiente, dopo un inverno passato a tirare plastica.
Con Ralf ripeto Se la conosci, la eviti, al Monte Casale. Bella via, molti chiodi, alte difficoltà.
Purtroppo sono rigido: il lavoro su pannello di quest’inverno mi ha dato spunto sui passaggi brevi, ma mi ha tolto continuità. Tiro molto artificiale. Ralf invece passa quasi ovunque in libera.
In compenso, riesco ad esibirmi nella planata più lunga della mia carriera alpinistica, un vero e proprio volo da base jump.
Al settimo tiro, per risparmiare un friend ed evitare che le corde scorrano male, salgo la prima fessura senza proteggermi.
Ma, appoggiato il piede sinistro su una toppa erbosa calpestata da tutti, ho appena il tempo di prendere coscienza della vocina interiore che, allarmata, mi dice “Scivola!,” che già mi ritrovo a precipitare a velocità folle in mezzo alle frasche verso ignota destinazione.
Mi fermo 7-8 metri più sotto, con i piedi a 20 cm dalla cengia sulla quale Ralf sta facendomi sicurezza.
Ringrazio l’albero che mi ha tenuto e riparto subito, per evitare al cervello di concettualizzare la cosa.
Usciamo tardi. Ma la discesa nella sera e la camminata tra le vigne al cospetto dei pilastri del monte Casale, sotto un cielo azzurro pastello e con un piacevole vento tiepido che ci accompagna da dietro, è indimenticabile.

Sabato 1 giugno 2002
Ricomincia la danza.
Ralf quest’anno vuole ripetere Voyage selon Gulliver al Grand Capucin e insiste con le vie dure. Granito, questa volta: Artemisia al Qualido.
C’è da aver paura a guardare da sotto la parete, così alta. Se non fosse stato per le campagne dolomitiche degli anni passati, credo mi sarebbe sembrata ancora più imponente (foto).
Siamo arrivati nei pressi dell’Hotel Qualido di notte, dopo una scarpinata nel buio lungo il ripidissimo sentiero (avevamo una sola frontale: la mia a metà salita si è spenta e ha deciso di non funzionare più). Ralf ha trovato un masso sotto il quale potevamo stenderci, ha tirato fuori dallo zaino una birra e si è messo a sorseggiarla chiacchierando, in barba a tutte le più moderne teorie dietologiche. È uno dei pochi che riesce a fare il 7a a vista usando come doping cioccolatini al liquore, salamini piccanti, aranciata amara e prelibatezze simili. Non so come diavolo faccia.
Esauriti gli argomenti di discussione e stroncati dalla fatica, ci addormentiamo sotto un cielo sereno nel mezzo del quale splende una luna da film. La sua luce avvolge di un fantastico chiarore lattiginoso la grande parete.
La mattina è ancora stupenda. Troviamo la nostra linea e partiamo.
Noto con sospetto che ci sono molte cordate sulle vie vicine, ma nessuna sulla nostra.
Questa volta saliamo rapidi. Ci ritroviamo ad usare l’artificiale solo di rado (al primo tetto, sulla lunga placca strapiombante che segue e sul tiro a copperhead poco più avanti). Tutto accessibile, insomma (foto).
Ma le sorprese devono ancora arrivare.
Siamo a cinque tiri dalla fine. Davanti a noi c’è una ripida ed enigmatica placca. Toccherebbe a me, ma Ralf vuole tirare la libera anche sulla lunghezza successiva (A1 o 7b secondo la relazione di Vitali) e, sapendo che non sono un amante della libera a tutti i costi, mi chiede se può passare davanti e lasciare a me l’artificiale del tiro dopo. Lo vedo risolvere egregiamente il tiro con una delicata serie di movimenti su croste di dubbio aspetto e andare a prendere il diedro che conduce alla sosta, sotto una fessura strapiombante dall’aspetto minaccioso.
Lo raggiungo e guardo in alto.
La fessura ha un solo chiodo.
E io dovrei salire di lì?
Ralf mi fa fretta.
Io, perplesso, mi preparo e parto: “Se è A1, qualcosa ci sarà, no?”.
Devo spremere tutte le mie energie già solo per arrivare al chiodo, sul quale mi lancio con molta foga e scarsa prudenza: non ha un bell’aspetto.
Mi ci appendo e mi fermo a riposare. Poi, con Ralf che là sotto rompe, riparto.
Sistemo un nut sul fondo della fessura, incastrandolo appena tra rugosità accennate, trattenendo il fiato lo carico e…
Quello, a dispetto di ogni legge fisica, tiene! Credevo che certe cose succedessero solo nei racconti delle riviste.
Appeso al nut, che non so come faccia a reggere, allungo una mano e cerco di piazzare un friend nella fessura, in questo tratto una specie di grondaia scavata nel granito, ma le camme dell’attrezzo non fanno presa. Armeggio un bel po’ prima di riuscire a fare in modo che il friend si incastri. Lo tiro e resto esterrefatto: tiene anche quello! Ripeto il giochetto altre due volte finché riesco ad alzarmi oltre il bordo della sezione strapiombante e ad infilare un ottimo nut sul fondo della fessura, ora generosa. Sono salvo! (foto)
A1?
Mah…
Continuo il tiro, un buon VI fino alla fine, con le corde che fanno un attrito inverosimile, e arrivo in sosta. Recupero Ralf che, arrivatomi vicino, ridacchia divertito.
“Libera?”
“No, niente libera. Ho tirato i friend. Ma che paura!”
Concludiamo la via nella luce del tardo pomeriggio (foto). Uno sguardo al selvaggio panorama oltre la cresta e poi giù veloci in doppia fino in fondo. Nonostante sia sabato, questa sera dobbiamo tornare a casa.

Domenica 9 giugno 2002
Sono di nuovo in Val di Mello, questa volta con Giovanni.
Obiettivo: Sole che ride più la parte alta di Le corna non fan peso.
Le fessure finali, viste dal parcheggio, fanno impressione.
Col ripido sentiero che aggira l’Altare arriviamo rapidamente all’attacco, una bella placca protetta con spit nuovi.
Parte Giovanni. Poi a me tocca il primo tiro duro. E ancora di nuovo Giovanni, sul tiro ad arco verso sinistra, bagnato. Brutto segno…
Infatti la fessura del tiro successivo è fradicia: una cascatina d’acqua scende ruscellando dallo strapiombo. Ovviamente tocca a me.
Macinate le oscenità di rito, faccio un respiro profondo e parto. Salgo in libera fino alla base della fessura, poi non mi fido del bagnato sul muro nero di licheni e, dopo qualche tentativo in libera con l’acqua che mi entra dalle maniche del pile, tiro fuori i micronut di Giovanni e inizio a salire in artificiale. Dopo l’esperienza di sabato, non mi stupisco più della miracolosa capacità di simili aggeggi di sostenere il mio peso.
Il traverso fino alla sosta è bello e delicato. Finalmente arrampico in libera.
Concluso Sole che ride, diamo uno sguardo a Le corna non fan peso: fessure umide ed erbose.
Per oggi basta emozioni. Torniamo indietro.

Sabato 22 giugno 2002
Una settimana di pausa e via di nuovo. Questa volta Dolomiti!
Io, tanto per iniziare, propongo qualcosa di tranquillo, tipo la Rizzi alla Roda di Vael, una passeggiata sul IV per riabituarsi alla verticalità dolomitica. Ma Giovanni vuole cimentarsi e propone la Via Dietro l’angolo (III Torre del Sella), che Iacopelli descrive come un itinerario breve e con solo due tiri di VI e uno di A1, da percorrere in massimo 6 ore.
“Proviamo?”.
Spiaccico un “Sì” poco convinto.
Fin dall’inizio i presagi sulla giornata sono poco incoraggianti. Giovanni arriva a prendermi in ritardo. E, in ritardo, arriviamo al Passo Sella.
Impieghiamo un po’ anche a trovare l’attacco (per i curiosi, 2 metri a destra del Diedro Harrer, sotto la verticale di un grande tetto), poi partiamo.
Giovanni al terzo tiro mi fa passare davanti, una fessura strapiombante bagnata che promette più del VI dichiarato. Risolvo i dubbi sulla tenuta dei chiodi, buoni, ma ricoperti da una sospetta polvere biancastra, passando in libera: alla faccia del VI!
Non è banale nemmeno il successivo traverso sotto il tetto: ancora una volta, data la qualità delle protezioni, preferisco arrampicare: tiro l’artificiale solo sull’ultimo tratto verticale che porta in sosta, assicurato da un ottimo bong.
Giovanni torna a condurre sul tiro successivo (V sulla carta), ma sale lento.
Ahi ahi! La vedo grigia...
La via è più impegnativa del previsto.
Il prossimo tiro dovrebbe essere di VI. Per tentare di recuperare tempo, salgo rapido.
Fino a metà.
Poi mi perdo.
La relazione descrive la lunghezza come un arco verso destra, ma, nonostante le mie divagazioni su quel muro rosso-grigio a buchi, non trovo tracce di passaggio.
Dopo un’ora abbondante scopro che devo salire ancora diritto e traversare poi a sinistra. Faccio sosta precaria su chiodo e nut e recupero Giovanni. Riparto verso destra, trovo la sosta giusta su un terrazzino a circa 55 metri dalla precedente sosta e proseguo, a destra di essa, diritto per placca e muretti verticali. Ancora qualche passaggio di VI, poi un ultimo tiro facile per arrivare alla Cengia a Spirale.
Ormai è evidente: Iacopelli, sulla sua relazione, ha saltato un tiro.
Seppure con la mente ottusa per la stanchezza, riesco a restare stupito dalla quantità di improperi che Giovanni vomita addosso al poco accorto compilatore e che si concludono con l’immancabile: “Mai più iacopellate!”, nel nostro gergo, vie segnalate dall’alpinista bolzanino e caratterizzate da linea incerta, roccia dubbiosa e protezioni scarse.
In ogni caso ormai è tardi. Con i piedi doloranti e a malincuore decidiamo di scendere. Comincia a diventare un'antipatica abitudine, quest’anno. L’unica consolazione è che, fino a lì, la via è stata stupenda. E poi abbiamo fatto la parte dura, no?
La Val di Fassa, al ritorno, incanta, immersa com’è nei caldi colori del tramonto.

Sabato 29 e domenica 30 giugno 2002
Ralf insiste con la preparazione pre-Voyage.
Questa volta, dato che la meteo in alta montagna prevede tempo brutto, decidiamo di andare in Valle dell’Orco. Posto nuovo, quota bassa, belle vie. Ci attira l’idea di ripetere la Fessura della Disperazione.
Partiamo venerdì sera, sotto un cielo di un azzurro metallico per i forti venti occidentali, e sabato mattina saliamo al Sergent.
“Via facile per iniziare?”
“Sì, dai!”
“Che ne dici di quella bella placca, là sopra?”
Scopriremo che la “bella placca, là sopra” è un 7a duro che a Ralf fa sudare le proverbiali sette camicie e a me settanta volte sette. Comunque, magnifico…
Trascorriamo il pomeriggio in un poco convinto tentativo alla Disperazione (i nostri friend sono troppo piccoli: ci caliamo al primo tiro) e sui monotiri alla base del Sergent. A Ralf riesce un 7a a vista.
A fine giornata non rinunciamo ad una visita alla fessura Kosterlitz, assediata da un gruppo di boulderisti dalle mani fasciate. Ralf si lancia nel cimento, senza riuscirci: per oggi ha già dato. Io mi accontento di guardare i tentativi di uno dei ragazzi che arriva in cima a forza di incoraggiamenti urlati dal basso. Siamo in molti a non volerlo veder precipitare da lassù.
Esaurite le ultime velleità arrampicatorie, piazziamo la tenda in corrispondenza di un tornante della strada vecchia e trascorriamo la serata chiacchierando, sorseggiando birra e guardando il fuoco.
La notte ovviamente piove. Ma Ralf non è tipo da arrendersi.
La mattina, nella nebbia, saliamo al Sergent, percorriamo in tutta scioltezza una via facile dalle parti del Cristo Verde e concludiamo la giornata non senza pathos sul Diedro del Mistero. L’ultimo tiro è un buon 6b di fessura strapiombante e tetto da proteggere sul quale Ralf mi caccia a forza per “abituarmi all’ingaggio”, come dice lui. Solo 15 metri, ma con l’adrenalina a mille.
Torniamo a casa ascoltando alla radio dell’ennesima impresa di Ronaldo e compagni che anche quest’anno vincono il Mondiale.

Sabato 6 luglio 2002
Meteo sibillina. In Dolomiti danno brutto. Ralf e io ci orientiamo sulla Presolana, parete Nord, via Le medaglie di Matley. Ci alziamo tardi, attacchiamo tardi e finiamo tardi, complice anche la solita relazione imprecisa (questa volta di Ruggeri) che ci porta a concludere la via 30 metri sotto il cengione Bendotti e non un centinaio di metri più in basso, dove iniziano le calate.
Le parolacce all’indirizzo del buon Ruggeri sono questa volta stemperate dalla magnifica enrosadira alla quale assistiamo al tramonto.
Torniamo a Colere al piccolo trotto attraversando il bosco ormai al buio, con la strana sensazione di essere protetti dalle tenebre che ci avvolgono.

Sabato 13 luglio 2002
Ancora brutto in montagna.
Telefono a Ralf. Decidiamo di restare in basso: falesia. Andiamo a Borno, Paline per la precisione. Dopo quattro monotiri, mentre sto pulendo in tutta fretta un 7a, un diluvio si abbatte su di noi.
Ci rifugiamo in macchina completamente lavati e ripieghiamo sulla Madonna della Rota per concludere la giornata. Alcuni amici, in Dolomiti, arrampicheranno senza pioggia.

Sabato 20 e domenica 21 luglio 2002
Altro giro su granito in compagnia di Giovanni.
Meta: Svizzera, zona dello Salbitshijn.
Vorremmo tentare qualcosa in alto, ma le molte macchine al parcheggio e le poco incoraggianti notizie di una coppia appena scesa dal bivacco ci inducono a rinunciare.
Ripieghiamo su una via alla Sandbalm.
Partiti lungo una linea, ben presto ci perdiamo in un mare di spit. Inoltre il granito, molto slavato, non è proprio il massimo dell’aderenza. Ci caliamo dopo un volo di Giovanni sul primo tiro della parte alta. Motivazione ufficiale: è bagnato. Motivazione reale: è schiodato e ne abbiamo pieni gli zebedei. Insomma, la solita storia della volpe e dell’uva.
In serata ci portiamo al Furkapass, contando di ripetere, nell’indomani, una via facile al Klein Bühlenhorn: forse la Perrenod… Comunque alcuni tiri di IV, poi uno di V+ e tre di VI. Contiamo di partire presto, perché nel primo pomeriggio è previsto l’arrivo della solita perturbazione.
Alle 6.00 siamo in piedi, alle 7.00, con un freddo cane, all’attacco della via e alle 9.00 alla sosta del penultimo tiro, un bel VI atletico che Giovanni risolve con la consueta eleganza.
Ma la perturbazione arriva con largo anticipo.
Scendiamo in doppia sotto una pioggia fredda alternata a grandine, maledicendo, come il Giobbe biblico, il giorno in cui siamo nati.
Nel primo pomeriggio siamo già a casa, a scaldarci le ossa.

Sabato 27 e domenica 28 luglio 2002
Grande week-end. Le previsioni non potrebbero essere migliori.
Non senza una certa fatica convinco Ralf a optare per la Sud della Marmolada. Lui ovviamente puntava su Voyage.
Da un po’ sto facendo il filo alla Vinatzer con uscita Messner. E questo week end (luglio, tempo stabile) potrebbe essere l’unica occasione buona di quest’estate.
Alla compagnia si aggregano Giovanni, che arrampicherà con me, e Ivan, con Ralf.
Sabato saliamo la Buhl al Piz Ciavazes: bella con un ultimo tiro psichedelico. Peccato per l’untume.
In serata raggiungiamo il Falier dove, con i denti, riusciamo a strappare un posto letto: l’indomani nei pressi del rifugio si terrà un concerto. Inoltre molte cordate sembrano voler approfittare dell’unico week end buono della stagione: Beppe e Michele che puntano a Tempi Moderni all free, Pierino Dal Pra con clienti e molti altri.
Dormo a sprazzi nella mia cuccetta fino alle 4.00. Poi partenza al buio per arrivare primi all’attacco. Ma sbagliamo le previsioni. Due cordate ci hanno anticipato.
Chi ci precede non parte dall’attacco originale, un camino rossastro strapiombante e umido che promette ben più del V+ annunciato dalla relazione, ma da una rampa più a sinistra. Noi li seguiamo, nella speranza di evitare guai.
Ma già il secondo tiro (un traverso per rientrare in linea, sprotetto) oppone difficoltà di 6a.
Giovanni se la cava egregiamente, nonostante i preoccupanti rumori che arrivano da più sopra. Il capocordata del gruppo che ci precede vola sul camino di IV con fragori di rocce smosse.
Purtroppo il mio collega inizia a cavarsela meno bene più sopra, lungo i sistemi di fessure della parte mediana.
Siamo troppo lenti e dobbiamo far passare davanti anche una veloce cordata di tre lecchesi condotta da un lupo di monte che, piazzando pochissime protezioni, sale quei VI atletici a balzi felini. Insomma, una cosa… bestiale.
Li perdiamo poco prima del sistema di fessure sotto la cengia mediana.
E purtroppo perdiamo anche Giovanni che non regge lo stile di arrampicata vinatzeriano, cunicolare e atletico. Sugli ultimi tiri prima della cengia passo davanti io, mentre Giovanni, innervosito da fame e fatica, ad ogni minimo intoppo sbraita come una zitella inacidita. Fortunatamente ha con sé la sua droga, aminoacidi a catena ramificata, che, seppure assunta a dosi minime, in virtù di misteriose alchimie a me del tutto ignote lo riconduce alla consueta concentrazione.
Alla cengia ci fermiamo a riposare.
Sono le 14,30. Per la Messner ormai è tardi.
Ripieghiamo per i facili canali della Vinatzer rincorrendo le ultime cordate che, come noi, cercano di evitare il bivacco.
Ma ben presto restiamo ancora indietro. Sono io questa volta a perdermi, ingannato dalla relazione di Giordani che descrive la variante Stenico come una deviazione verso destra rispetto alla linea di Vinatzer (sul fondo del canale principale).
Attrezzo una sosta, ma Giovanni si rifiuta di seguirmi. Sono quindi costretto a tornare sulla via originale arrampicando all’indietro e a risalire per portare Giovanni in corrispondenza del bivio vero, evidente: camini verticali, oscuri e tetri a sinistra, diedro fessurato di roccia dubbia a sinistra. L’istinto arrampicatorio invita a deviare a destra, nonostante i blocchi in bilico. Perché mai Vinatzer avrà deciso per la sinistra?
Comunque anche a destra l’ingaggio non è indifferente.
Passo da primo sul tiro di V+, una fessura arancione di roccia da “m’ama – non m’ama” che va trazionata con delicatezza, in strapiombo… Figurarsi!
Ma ormai ho la mente anestetizzata dalla stanchezza e salgo come un automa, avvertendo la mia paura come se appartenesse ad un altro. Da qui rapidamente siamo fuori.
13 ore! Insomma… piuttosto lenti.
Mi consolo pensando che ho tirato solo tre chiodi in tutta la via.
Scendiamo al Passo Fedaia dove ci attendono Ralf e Ivan, che hanno concluso la Gogna in tempo record e sono già scesi a Malga Ciapela a prendere l’auto.
Al bar beviamo una birra con i tre lecchesi, che, al racconto di Ralf sulla nostra ripetizione di Artemisia e in particolare sulla fessura del quartultimo tiro, commentano sghignazzando: “Vitali ha fatto la via molto tempo fa e non si ricorda. Comunque quel chiodo prima o poi salterà via…”. E giù a ridere.
Sai che divertimento…
Per fortuna non sarò io lo sventurato cui capiterà la piacevole sorpresa.
Torniamo a casa avvolti nella tiepida oscurità della notte, che, pietosa, concede riposo ai nostri spiriti stanchi e appagati.

Sabato 3 e domenica 4 agosto 2002
Meteo infida…
È una costante, quest’anno.
Non riesco a convincere né Ralf né Giovanni a optare per un tranquillo week end a spit da qualche parte sulle Apuane e li seguo dubbioso in Dolomiti.
Ralf propone Thriller agli Spalti di Col Becchei, una via ben protetta dalla quale si dovrebbe poter scendere rapidamente. Peccato (ma non lo sappiamo ancora) che la linea salga con continui traversi a destra rendendo potenzialmente complicata un’eventuale calata.
Dopo un viaggio rallentato dal traffico, arriviamo alla base della parete solo alle 11.00, per fortuna in una bella giornata di sole. Parto io davanti (per la prima metà della via), poi sul duro condurrà Ralf.
Inizio subito sbagliando. Sul primo tiro, anziché traversare nettamente a destra in corrispondenza della terza protezione, proseguo dritto, regalandomi un trip adrenalinico di 6b su placche grigie a onde e buchi, poco proteggibili.
Qualcun altro deve aver sbagliato prima di me, perché arrivo ad una sosta così così su clessidre. Da qui, recuperati gli altri, traverso a destra per placca e poi sotto un tetto per riprendere la via originale. I tiri seguenti sono duri (non riscontrerò grande differenza tra questi 6a e i gradi superiori che incontreremo più avanti), ma la roccia è stupenda e la meteo tiene. Gironzolo un po’ prima di trovare la sosta dell’ultimo tiro di 6a (clessidra nel canale di Los Angeles, sulla verticale di spit gialli). Ma Ralf si sciroppa agevolmente i tiri successivi, cedendo all’artificiale solo sul primo passo di 7a. Impieghiamo ugualmente otto ore ad arrivare in cima. E  perdiamo tempo anche nelle calate.
La relazione di PlanetMountain parla di una linea di discesa in corrispondenza di un abete. Noi ne prendiamo una in corrispondenza di un pino (sarà giusta?) e, dopo una serie di doppie delicate su soste scomode, arriviamo in fondo. All’ultima calata, nonostante le nostre precauzioni, il nodo si incastra in una “goccia” e costringe Ralf a una risalita su prusik per sbloccare le corde.
Ancora una volta percorriamo il sentiero di rientro nella notte.
La perturbazione, implacabile, arriva verso l’una. Infilati nei nostri sacchi a pelo ascoltiamo la pioggia picchiettare sul telo della tenda. Domani non si arrampica, penso.
E invece la mattina, dopo un inizio incerto, si fa magnifica.
Discutiamo sul da farsi (montagna o falesia? Io ho un cattivo presentimento) e optiamo per la Cassin alla Piccolissima di Lavaredo.
Salassati dei nostri averi al casello di accesso della strada per il rifugio, mettiamo i piedi fuori dalla macchina a quota 2000 circondati da un panorama sconcertante: turisti stile “spiaggia” che passeggiano alla base di quei mostri di pietra come se fossero in un centro cittadino.
Nel frattempo nuvole fioccose si addossano alle montagne intorno.
Il tempo terrà?
Chiediamo consulto alla posteggiatrice, una bellunese dall’aria esperta, che ci rassicura: “Nessun problema! Oggi terrà. Che cosa avete intenzione di fare?”.
“La Cassin alla Piccolissima”.
La vedo rabbuiarsi, ma ci saluta. E noi salutiamo lei.
Corriamo all’attacco circondati da una folla in mezzo alla quale, con tutti i nostri aggeggi da alpinisti, siamo intrusi.
Come ieri, la prima metà della via spetta a me e la seconda a Ralf. Salgo rapidamente il primo tiro, un po’ meno rapidamente il secondo, restando meravigliato del fegato di Cassin che, negli anni Trenta, ha osato forzare i gialli strapiombanti che siamo salendo, e ancor meno rapidamente il terzo, frastornato dalla quantità di chiodi che trovo in parete: c’è una linea a sinistra con chiodi vecchi, una centrale su fessura con chiodi nuovi ed un’altra più a destra. Per correttezza filologica (è difficile che i chiodi nuovi siano di Cassin), vado a sinistra.
Poi passa davanti Ralf. VII-, recita la relazione, molti chiodi. Marci, dovrebbe aggiungere.
Il teutonico non si lascia intimorire e risolve il tiro in libera.
Seguono il traverso di V e il bel diedro successivo.
A questo punto ci fermiamo.
La relazione suggerisce di andare dritti. Ma davanti a noi abbiamo una nicchia gialla di roccia strapiombante malsana. L’unica soluzione logica consiste nello scendere dal pulpito di sosta, traversare a sinistra e proseguire poi dritti sul muro grigio sovrastante. Così è. Raggiungiamo Ralf giusto in tempo perché le nubi finiscano di addensarsi.
Se vogliamo evitare l’ennesima lavata, dobbiamo toglierci rapidamente da lì, sfruttando, come suggerisce la relazione, una cengia che dovrebbe trovarsi alla nostra sinistra e portarci all’intaglio tra la Frida e la Piccolissima.
Ma la relazione è falsa come Giuda.
Non c’è nessuna cengia a sinistra.
Lo scoprirà suo malgrado Ralf cercando una scappatoia in quella direzione sotto la tempesta che nel frattempo ci è piombata addosso e ci sta investendo con ondate selvagge di pioggia e grandine.
Il tedesco è fortunato (e noi con lui). In un largo camino a sinistra della sosta, in basso, trova una calata a spit. Noi lo raggiungiamo e cominciamo una serie di doppie, le prime nel vuoto e quelle successive nel canale tra la Frida e la Piccolissima, sotto cascate d’acqua.
La corda ci si incastra un paio di volte. Ma la forza della disperazione e un paio di manovre azzardate ci aiutano a tirarci fuori dai guai. Solo da quelli relativi alle corde, perché dagli altri, da quelli dovuti al freddo, alle mani intirizzite, ai fulmini, ancora non siamo fuori.
Ogni tanto mi capita di mettermi ad urlare di rabbia nella speranza di scaldarmi, mentre a flash mi torna in mente l’esperienza in Svizzera. E, quando non urlo, la mia bocca non fa che biascicare oscenità, come se, a muovere la lingua, mi si scaldassero le ossa.
Più tardi, sullo stradone che contorna le Tre Cime, scherzando diremo: “Era quasi l’inferno degli alpinisti. Se fossero saltate fuori squadre di diavoletti a tirarci sassi in testa e a martellarci le dita dei piedi, sarebbe stato perfetto”.
Ma lì, nel canale, è tutta un’altra faccenda.
Arriviamo in fondo e recuperiamo le corde appena prima che un fiume di acqua e rocce invada il canale per precipitare con fragore sul ghiaione.
Ci è andata bene.
Nel frattempo strani fenomeni elettrici si stanno verificando all’interno del server che ospita Planetmountain, cariche elettrostatiche di ignota origine (provenienti, parrebbe, dalle Tre Cime di Lavaredo) che impediranno al sito di funzionare normalmente per mesi e mesi. E, contemporaneamente, virus alieni divorano spietati i programmi e i documenti spergiuri del sito. La (giusta) vendetta dell’arrampicatore ingannato!

Mercoledì 14 agosto 2002
Dopo una lunga pausa (sono stato una settimana in Carnia a godere delle amorevoli cure di mia zia, che mi ha rimpinzato per bene), sono di nuovo operativo, questa volta con Filippo, Beppe e Renato. L’obiettivo è lo Spigolo Strobel alla Rocchetta Alta di Bosconero.
Sulla salita poco da raccontare: bello l’avvicinamento di ieri, in un bosco di faggi da fiaba, bello il rifugio, bella la parete e stupenda la via, tutta in libera!
Ah sì: il solito problema delle relazioni. Questa volta ne abbiamo due e ugualmente, nella sezione centrale, riusciamo a perdere l’orientamento; solo quello, perché la linea è logica e facile da individuare.
Torniamo a casa quella sera stessa per un giorno di riposo prima di ritrovarci in Brenta. Obiettivo: Detassis alla Brenta Alta.

Venerdì 16 e sabato 17 agosto 2002
Si sa, la vita è imprevedibile.
Nonostante l’appuntamento con Filippo e Beppe, causa affollamento al Brentei, non ci ritroviamo. Scopriremo che loro sono saliti all’Alimonta e il 17 hanno ripetuto la Detassis alla Tosa.
Io e Giovanni ci dedichiamo il primo giorno alla Maestri al Campanile Basso e il secondo alla Detassis alla Brenta Alta.
Io devo essere proprio in forma: la Maestri mi riesce in libera senza alcuno apparente sforzo.
E siamo anche fortunati.
Nonostante i problemi di orientamento nel tratto mediano, riusciamo ugualmente a scendere in doppia prima che inizi a piovere. Aspettiamo che smetta fermandoci su un tratto delle Bocchette sotto strapiombi proprio di fronte alla via. Ne osserviamo non senza una certa amirazione la linea e commentiamo dell’astuzia di Maestri nel risolvere il tetto terminale (un traverso netto su grandi prese) e della stranezza dei gradi: a me la sezione dei tetti è sembrata meno difficile delle fessure finali, IV+ secondo Furlani.
Il giorno dopo, partenza col buio in direzione della Brenta Alta. Giovanni procede a rapide falcate. Io no.
Arriviamo sotto l’impressionante scudo policromo proprio al sorgere del sole.
Teniamo la testa bassa. Alzarla per individuare la linea di salita intaccherebbe coraggio e convinzione. Comunque partiamo, prima io e poi Giovanni.
Abbiamo qualche difficoltà di orientamento per arrivare alla base della variante Pisoni (stupenda), ma saliamo rapidamente fino all’ultima sezione impegnativa. Per fortuna, perché, in barba alle previsioni, le nuvole si stanno addensando anche oggi e non promettono niente di buono.
Ad un certo punto (il secondo tiro sopra il traverso a sinistra: un netto obliquo a destra che una delle - tre! - relazioni che abbiamo dà di 25 metri tendenzialmente in discesa), Giovanni sceglie di essere creativo e si ferma prima del dovuto, ad una sosta a chiodi sotto una lunga fila di altri chiodi. Lo raggiungo e parto seguendo le protezioni.
Il V+ teorico della relazione diventa ben presto VI, VI+ (e forse anche qualcosa in più). Arrivo alla sosta, 50 metri filati di corda fuori, con la certezza di aver sbagliato linea. Sarà la variante descritta da Furlani?
Giovanni arriva in sosta e, dopo accurata riflessione, prosegue per un camino proprio sopra di noi. Trova chiodi di fermata a sinistra. Lo seguo.
Lui vorrebbe continuare ancora a sinistra, su placche bianche che sembrano dare sul niente.
Io, guardando la foto che accompagna la relazione, preferisco andare a destra (la via, nella parte terminale, dovrebbe salire su rossi e gialli fessurati).
Traverso nettamente a destra e raggiungo un chiodo con cordino e moschettone.
“Sarà il pendolo?”, mi chiedo. Non so darmi risposta. La relazione CAI TCI prevedeva almeno 7 tiri dalla fine della variante Pisoni a qui. Noi ne abbiamo fatti 5.
Bah…
Continuo a traversare (passo in libera arrampicando basso) e arrivo ad una sosta. Giovanni mi raggiunge.
E adesso?
Secondo la relazione: diritti superando una nicchia, poi traversare a destra ad un diedro, oltrepassare uno strapiombo a destra ed entrare in una grotta rossa.
Per fortuna è proprio così. Abbiamo misteriosamente saltato due tiri…
Raggiungo rapidamente le cenge terminali.
Senza pensarci due volte, propongo a Giovanni di scappare fuori. Il tempo si sta mettendo proprio sul brutto. Primo tiro in traverso a lui, secondo a me.
Trovo una sosta su un pulpito alto, dal quale intuisco il canale d’uscita ancora a sinistra. Invito Giovanni a passare basso e ad andare a vedere. È così.
Lo raggiungo e riparto subito per il tiro seguente, con un tratto finale non proprio facile.
Giovanni fa appena a tempo a superarmi e ad andare a fare sosta sotto strapiombi più in alto che si scatena l’ennesimo temporale.
Ci incastriamo ben bene nella fessura, allontaniamo la chincaglieria (la vetta è bersagliata da fulmini) e ci godiamo lo spettacolo.
La valle delle Seghe sotto di noi è avvolta nei fumi del temporale. Spicca in basso l’immane scivolo del Croz dell’Altissimo, vistosa macchia di grigio nel grigio più tenue delle nubi.
Alcuni fulmini scaricano parte della loro energia nel canale: Giovanni dice di sentire scosse alle chiappe. A me non succede.
“Eh, dài”, commento. “Elettrostimolazione gratis!”.
Attendiamo che spiova, poi scappiamo fuori.
Siamo stati fortunati… E, una volta tanto, furbi. Forse stiamo imparando.

Sabato 24 e domenica 25 agosto 2002
Stanchi di acqua e di emozioni, Giovanni ed io (Ralf è in ferie con la famiglia) optiamo per qualcosa di tranquillo: White Crack al Colodri. La via é bella e ben protetta. Riesco comunque a complicarmi la vita andando a prendere inconsapevolmente la Variante dei Bolognesi: 6c su oscillanti chiodi da A3.
Ma che cosa sarebbe l’esistenza senza emozioni?
Domenica, falesia, nonostante la splendida giornata. Mi mangio le dita.

Domenica 1 settembre 2002
Giornata da Rock Master.
Mentre “Quelli veri” se ne vanno ad assistere alle evoluzioni sulla plastica di “Quelli ancora più veri”, Ginetto, Giovanni ed io ci lanciamo ad esplorare l’ultima creazione di Ivan: A Paco, Monte Casale. 600 metri di via su placche ben protette e, si spera, al sole. Altrove la meteo non è rassicurante; confidiamo nella tradizionale scarsa piovosità di Arco.
Il timore iniziale per il 7a obbligatorio si rivela infondato: non è 7° obbligatorio! Saliamo arrostendo come braciole sulla piastra, ma saliamo.
Il sole si nasconde dietro le creste del Casale solo sul tardi, a tre tiri dall’uscita, quando sia Ginetto che Giovanni hanno ormai i piedi lessati dal caldo. I miei per fortuna tengono la cottura. E così conduco eroicamente la cordata fuori dalla parete… per farla smarrire al rientro, ostinandomi a voler scendere per un’inesistente cengia che dovrebbe tagliare un grande pilastro alla nostra destra. In realtà la discesa è a sinistra, lungo l’evidente rampone obliquo che, tra balze boscose, ci riporta a Pietramurata.
Saliamo in macchina giusto in tempo per beccarci la solita coda a Toscolano. 4 ore, questa domenica: un record.

Sabato 7 e domenica 8 settembre 2002
Giovanni, insistendo, mi convince a tentare alcune salite nel gruppo del Bianco.
Io sono poco convinto: le previsioni, tanto per cambiare, sono pessime.
Sabato ripetiamo Venus ou bien Venice in val Ferret e domenica, dopo una nottata piovosa passata al rifugio Dalmazzi e una mattinata di attesa per capire come evolverà il tempo, partiamo sul tardi alla volta dell’Aguille Savoie. Girovaghiamo a lungo nel caos barocco di ghiacci in dissolvimento che circonda l'Aiguille e, scartate due vie perché bagnate, alla fine ci orientiamo su Rose Marie, 10 tiri. Le prime quattro lunghezze sono molto belle, su granito rosso ruvido. Poi la via si perde su rocce rotte per rifarsi interessante solo sui tiri finali.
Purtroppo alla settima lunghezza le nubi smettono di salire e il vento inizia a soffiare verso il basso. È ora di scendere.
Tocchiamo il ghiacciaio proprio nel momento in cui cadono le prime gocce (e ti pareva!).
Accompagnati dalla pioggia scendiamo a valle in una montagna immersa nel grigiore.

Domenica 15 settembre 2002
Ultima puntata in Dolomiti.
Le previsioni per il week end mercoledì danno bello, giovedì brutto, venerdì di nuovo bello.
Ovviamente è brutto.
Ralf, Danilo, Giovanni e io andiamo all’attacco della via del Calice (Torre Innerkofler) sotto un impetuoso vento da nord. Nubi nere impazzite corrono rapide sopra le cime dei pilastri.
Ralf e Danilo finiscono la via. Io e Giovanni ci accontentiamo del terzo tiro: il mio collega sembra avere un principio di assideramento. A malincuore ci caliamo e andiamo a trascorrere mestamente la giornata arrampichicchiando alla falesia di Pian Schiavaneis.

Domenica 29 settembre 2002
Ralf è lanciato. Propone Fiore di Corallo, in Mandrea.
Giovanni non ci penserebbe neanche per sbaglio.
Io sono attirato dall’idea e al tempo stesso intimorito dai commenti di Filippi: “Solo per veramente capaci”.
Va a finire che Ralf si sciroppa da primo tutta la via con noi due al seguito (e io che mentalmente ad ogni tiro mi ripeto: “Adesso lo dico a Ralf e passo avanti! Adesso lo dico a Ralf e…”).
In realtà Fiore di Corallo non è poi così dura: poche protezioni sul secondo tiro, che tuttavia non è un VII hard come sopra ed è assicurabile; terzo tiro impegnativo (più per l’unto che per altro) e con un passo lungo alla fine (proteggibile con friend); sesto tiro con un ultima sezione tecnica chiodata distante; settimo tiro, questo sì, duro (A1 delicato nel primo tratto, poi un run out su protezione non eccezionale alla fine).
Infine il famigerato tetto (di A3?) è ben protetto, anche se col primo chiodo - solido - che guarda sospetto verso il basso.
La giornata è stupenda e, nonostante le mie paranoie (“Tornerò a farla da primo”, mi riprometto), mi godo la via e la discesa a Laghel.
“Per quest’anno basta emozioni”, penso.
È proprio ora di staccare.
Sono stanco. Di testa e di braccia.
Qualche giorno di riposo e poi si torna in falesia e a tirare plastica. La placida atmosfera settembrina di Arco sembra voler dare conferma ai miei pensieri.

Il week end successivo, piovoso e caotico (nello stesso sabato partecipo nell’ordine al funerale di un parente in Friuli e al matrimonio di un amico a Brescia), dà il suggello definitivo alla chiusura della stagione.

Già, quest’estate. Una vera fregatura.
Per molto tempo mi sono gingillato con l’idea che andare ad arrampicare in montagna fosse come i freddi e bui mesi che precedono il Natale: sprofondare momentaneamente nelle tenebre e nell’orrore per ritrovare, oltre, la luce e godere del ritorno alle piccole piacevolezze della vita.
Ma dopo quest’estate tutto è cambiato.
Credo che mi abbia fregato l’attenzione.
Sì, quell’attenzione feroce che si deve dedicare ad ogni cosa quando si va in montagna: alle cibarie da preparare il giorno prima, alla sveglia da puntare (col timore di non sentirla, che ti fa aprire gli occhi con la solita ora di anticipo), al viaggio di andata (tutti assonnati su una macchina lanciata a folle velocità per arrivare all’attacco il prima possibile), all’avvicinamento (una goduria per le mie ginocchia disastrate), alla via vera e propria (con le classiche e inevitabili complicazioni: le relazioni sicuramente sbagliate, la linea di salita mai evidente, la roccia delicata, le protezioni poco affidabili), alle condizioni del tempo (i previsori, in questi ultimi anni, si sono sempre più venduti al turismo di massa e tendono, spero inconsapevolmente, a rendere fin troppo rosei i bollettini meteo), alla discesa e al ritorno alla macchina lungo il sentiero (con coboldi e folletti che tendono ignobili tranelli alle gambe dell’arrampicatore intorpidito dalla stanchezza), al viaggio verso casa (sfrecciando in autostrada, gli occhi annebbiati e la testa ciondolante), ai gradini dell’ingresso (non si sa mai che i piedi incespichino l’uno sull’altro proprio al termine delle fatiche).
Ecco, quell’attenzione spietata non si è più mantenuta nei limiti di una tradizionale giornata di arrampicata, ma ha cominciato ad espandersi ad ogni momento della mia vita e a spodestare stati d’animo più sereni, piacevoli o divertenti.
Vorresti abbandonarti all’esaltazione per l’impresa compiuta?
Eh no, caro mio! Lei è lì, a ricordarti che è già tanto se hai tutte le tue ossa al loro posto e che non c’è niente di più pericoloso del trip da endorfine che fa seguito ad ogni overdose di emozioni alpinistiche.
Vorresti goderti la placida rilassatezza del giorno dopo?
Non ci riesci perché quella, la lucidità, è lì a sbarrarti gli occhi e a costringerti a dedicare attenzione alle eventualità più improbabili. "Le gambe della sedia su cui siedi sono sufficientemente solide? Le gomme dell’auto abbastanza gonfie? Il cielo sopra la tua testa al suo posto?"
Vorresti abbuffarti di ogni schifezza dopo settimane di alimentazione mirata?
Puoi provarci per un pasto, due al massimo. Poi il gonfiore, l’ottundimento mentale e la nostalgia, sì, la nostalgia che ti assale per quella misteriosa limpidezza interiore ti inducono immediatamente a più miti propositi.
Insomma, una vera rottura.
Anche se, bisogna ammetterlo, è quella stessa aspra chiarezza mentale a darti una mossa quando altri stati d’animo meno piacevoli iniziano a farsi largo dentro di te.
Ti deprimi?
“Oh, povero bimbo, vuoi le coccole della mamma?”, ti mormora dentro, con l’inconfondibile impertinente espressione della vocetta di Capodanno. E poi ti caccia a ripetere qualche via in solitaria per darti la sveglia.
Ti senti debole e incapace?
“Heilà signorina, sei davvero così pappamolla da non voler nemmeno provare questo magnifico 7b?”, sfida. E poi, ovviamente, ti caccia ad arrancare in qualche modo sul 7b e ad agognare la catena lontana.
Stanco, ti vorresti riposare?
“Così ti cala lo stimolo”, commenta. Ed eccoti a fustigare i tendini delle dita e dei gomiti sul pan Güllich per la settimanale seduta di forza.

Insomma, non sono ancora riuscito a stabilire se questa nuova componente del mio mondo interiore sia una risorsa o un’improvvida e inattesa rompiscatole.
D’altra parte, siccome so che tutto ciò ha in qualche modo avuto origine nella sciagurata campagna alpinistica di quest’estate, ho una mezza intenzione di dedicarmi a più rilassanti attività, il prossimo anno. Non voglio nemmeno immaginare quali potrebbero essere gli effetti di un’ulteriore trimestre di “ardui cimenti” e che cosa potrebbe emergere dai meandri della mia mente inconscia al termine di un’estate come quella del 2002.
Anzi, ho deciso.
L’anno prossimo mi dedicherò al bridge, o alla pesca.
Si ecco, alla pesca.

Ma eccola che ritorna:
“Ehi, tesoro! Non vorrai passare tutta l’estate con… una canna in mano!”, irrompe.
E scoppia in una rauca risata.

Gennaio 2003

br>
Commenta il racconto