Giardini verticali
Salite avventurose in un angolo dimenticato del nord-est

Il sole di agosto spende alto nel cielo, mentre mi avvolge quel tipico silenzio che si sente certe volte in montagna e che dà la strana percezione che tutto sia sospeso in un eterno senza tempo. Guardo verso il basso, a mio fratello che sta cercando di superare il passo chiave della via, un punto nel quale la parete, tagliata da un’unica sinuosa fessura larga circa 7-8 centimetri, si verticalizza. Io sono passato in libera, sistemando un micronut psicologico a rinforzo di un cordino da 3 mm infilato in una clessidra dai bordi taglienti. Mio fratello, che è alla sua terza esperienza alpinistica ed è in difficoltà con i sostenuti IV+ degli alpinisti carnici, tira la protezione che, in virtù di non so quale improbabile fenomeno fisico, regge. Non appena arriva in sosta, riparto e mi faccio difilato un tiro di 50 m lungo la continuazione della fessura fino alla base di un grande e ombroso abete. Mentre osservo mio fratello risalire, mi accorgo che dai buchi della placconata sotto di me spuntano bellissimi fiori bianchi, arancioni, gialli, azzurri e di mille altri colori: un psichedelico giardino verticale. Mio fratello arriva in sosta stravolto, non so se a causa del caldo, dell’esposizione (la parete sembra tuffarsi senza soluzione di continuità nei verdi boschi sottostanti), o della singolarità percettiva del tratto di mondo che stiamo attraversando.
“Sarà meglio che mi sbrighi, prima che ceda”, penso. E, recuperato il materiale, parto per il penultimo tiro della via (la continuazione verso sinistra della fessura appena salita, che dà su una spettacolare e facile placca, prima a gocce e poi di aderenza). Faccio sosta ancora ad un maestoso abete e, rilassato (ormai siamo fuori), recupero il mio paziente e sventurato fratello.

In realtà quel giorno la montagna ci avrebbe giocato qualche altro piccolo scherzo: l’erboso tiro finale, l’uscita su mughi, la discesa alla base per ripidi prati di erba alta senza sentieri, l’assenza d’acqua. Ma quella mia prima esperienza sulla via “De Rovere-Mancini-Cucci” al Panettone, una panciuta muraglia di ottimo calcare grigio nella zona del Passo di Monte Croce Carnico (Friuli nord-orientale), si sarebbe conclusa trionfalmente, alla calda luce rossastra di un benevolo sole al tramonto.
Non sarei più riuscito a persuadere mio fratello a seguirmi per altre scalate in zona (un’ulteriore esperienza sulla parete nord-est del Zermula, seguita da un’infinita salita sul Gamspitz, lo avrebbero persuaso ad abbandonare definitivamente il suo tirocinio nel mondo del verticale) e sarei stato quindi costretto a convincere qualcun altro ad accompagnarmi nell’esplorazione della parete.

Solo qualche anno dopo riuscii a fare in modo che Riccardo, il mio compagno di arrampicate di allora, e suo fratello accettassero di percorrere i più di 350 km che separavano la nostra città da quel luogo ai confini orientali delle Alpi per ripetere un’altra via sul Panettone. Il nostro obiettivo era la “De Rovere-Mazzilis-Mancini”. “Splendida arrampicata su roccia magnifica. La più bella della parete”, recitava la guida (A. De Rovere, R. Mazzilis, Arrampicate scelte nelle Alpi Carniche, Milano, Zanichelli, 1985).
Arrivammo sotto la fessura di attacco in una bella giornata di fine primavera, sotto un cielo reso di un azzurro incredibile dalle continue piogge dei giorni precedenti e in mezzo ad una natura selvaggia in pieno rigoglio. Attaccai io (“Hai scelto tu la via? Allora vai avanti tu!”, avevano detto gli amici, ghignando in preda ad uno stato di sadico eccitamento: le “facili” fessure verticali “di IV+” apparivano tutt’altro che banali). Arrivai, con qualche affanno, in sosta (sul tiro non c’era nemmeno un chiodo, per cui mi ero dovuto proteggere in qualche modo, data la mia allora scarsa esperienza in materia, solo con friend e nut) e recuperai gli amici. Già godevo della bellezza del tiro seguente, un traverso in placca tecnica che conduceva a una fessura ascendente verso sinistra, quando il fratello del mio amico, intimorito dal poco generoso IV+ degli apritori, chiese di tornare indietro. Con mio gran dispiacere, ci ritirammo, per andare a concludere la giornata e la nostra breve vacanza lungo una via spittata sulle placche della casera di Val di Collina (foto).
Non sarei più riuscito a persuadere nessuno ad accompagnarmi in Carnia. Fui quindi costretto a trovare in me la convinzione necessaria a finire da solo la via lasciata in sospeso.
Così una stupenda mattina d’estate, arrivato sotto la famigerata fessura del primo tiro, mi misi ad osservare la parete, nell’attesa che dentro di me si risolvesse la battaglia che avevano ingaggiato tra loro la paura di osare troppo e la voglia di scoprire nuovi angoli di mondo. Vinse la curiosità.
Partii così per uno dei miei più bei viaggi verticali “solo” (autoassicurato) che mi ricordi, attraverso la fessura del secondo tiro, le facili rampe del terzo, il complesso diedro del quarto (alla faccia del IV+ dichiarato da De Rovere e Mazzilis!) e le divertenti placche finali. Quella sera, scendendo per il sentiero di Pal Piccolo, ripensando alla via e contemplando le grazie di una comitiva di belle escursioniste che salivano a gruppetti in direzione contraria alla mia, complici le endorfine che mi circolavano nel sangue, mi sentivo al settimo cielo. Era innegabile: il Panettone mi dava sempre grandi momenti.

Sarei poi tornato lassù? Anche se mi sarebbe piaciuto, purtroppo no. Le (molte) vie che mi restano da fare sono più difficili (V+ - VII, gradi carnici DOC); non mi fido a ripeterle da solo. E, quando propongo a qualcuno un viaggio da queste parti, tutti mi rispondono: “Fare 350 km per ripetere una via solo di V+, lunga solo 200 m? Ma sei matto?”. Così le vie restano lì, ad attendere.
“Poveretti”, commento fra me e me. “Non sapete quali piccoli gioielli di straniamento percettivo vi perdete…”
D’altra parte, penso consolandomi, non a tutti è dato di contemplare le meraviglie che si svelano a coloro che osano varcare le porte della percezione.

Come arrivarci
Lungo l’autostrada A23 (Udine-Tarvisio) si raggiunge Tolmezzo e si prosegue verso nord lungo la SS 52 bis “Carnica” (indicazioni per Arta Terme – Sutrio). Si procede in direzione del passo di Monte Croce Carnico (Plöckenpass), oltrepassando i paesi di Cleulis e Timau (sovrastato, quest’ultimo, dall’aggettante parete del Gamspitz). La strada, superato il bar-albergo “La casetta in Canada”, inizia a salire più decisamente con una serie di tornanti. Al sesto tornante, si lascia la macchina e si imbocca un sentiero che attacca in corrispondenza del tornante stesso e che, attraverso un bellissimo bosco di faggi e aggirando un avancorpo di rocce erbose, conduce all’attacco delle vie (circa 30 min. dalla strada).

Le vie
Le due vie qui presentate sono le più semplici della parete (V – secondo me - la “De Rovere-Mancini-Cucci” e V+ - sempre secondo me - la “De Rovere-Mazzilis-Mancini”; i gradi dati dai carnici sono più bassi: rispettivamente V- e V) e si svolgono su roccia ottima, un calcare grigio solido e compatto che richiede un’arrampicata di stile “granitico” (fessure da dülfer e incastro e placche tecniche di aderenza). Durante la mia ripetizione in solitaria della “De Rovere-Mazzilis-Mancini” ho avuto la piacevole sorpresa di scoprire che qualche anima buona aveva piazzato solidi fittoni resinati alle soste e in corrispondenza dei tratti più difficili. Le vie sono quindi parzialmente attrezzate, ma richiedono che chi intende salirle sappia integrare le poche protezioni esistenti con friend (dall1 al 5, numerazione Ande), nut (serie completa) e cordini (clessidre). Non servono chiodi.
Una volta arrivati in cima e oltrepassato lo sbarramento di mughi, la discesa si effettua a scelta o lungo il canale a destra della parete (nel senso della direzione di marcia – erboso – non ci sono tracce), o, a sinistra, per il comodo sentiero di Pal Piccolo verso il passo di Monte Croce (segnato). Questa seconda alternativa costringe però a una lunga camminata su strada asfaltata prima e ripetendo il sentiero di accesso poi per tornare alla base della parete se si sono lasciati gli zaini alla base. Forse è possibile anche la calata in doppia.

Altre possibilità in zona
La parete del Panettone è attraversata da numerose altre vie classiche, maggiori informazioni sulle quali sono reperibili nel già citato “Arrampicate scelte nelle Alpi Carniche”. Qualche anno fa anche E. Cipriani deve aver aperto un tracciato a destra della “De Rovere-Mazzilis-Mancini”.
In zona è possibile arrampicare anche alla bella falesia di Pal Piccolo (raggiungibile tramite l’omonimo sentiero dal passo di Monte Croce Carnico – Informazioni sulle vie reperibili sul recente Arrampicare in Friuli – Luoghi di arrampicata sportiva, di I. Neumann), sul pilastro ovest sopra il passo (una via di IV protetta con qualche fittone), alle placche della casera di Val di Collina, attraversate da alcune vie a spit di circa 100 m (il posto è raggiungibile imboccando una comoda sterrata al tornante poco oltre la “Casetta in Canada” – indicazione “Cave marmi carnici”, dirigendosi a destra quando la stradina piega a sinistra verso la cava – tornanti). Molto bella anche la falesia del laghetto di Avostanis (da Timau, si sale la sterrata che porta a Casera Pramosio Bassa, ove si lascia l’auto e si prosegue a piedi per circa 1 ora in direzione del lago).
Per gli amanti dell’alpinismo, non si possono dimenticare la maestosa parete S della Creta da Cjanevate (con vie bellissime – e, al solito, poco protette - su roccia ottima), il Gamspitz (attraversato dalla temibile via “Laura”: VIII- di Mazzilis su protezioni ridicole: si narrano orrori sulla via. Molto più abbordabile e sicuramente divertente la “via attrezzata”: IV+ max.) e la Creta di Timau, con vie classiche sulla parete N e vie moderne (ad opera della banda dei triestini) sul versante S.

Per mangiare e per dormire
Nella vecchia guida di De Rovere e Mazzilis si fa cenno alla possibilità di campeggiare liberamente nei prati circostanti il passo di monte Croce. L’informazione va verificata. A Timau vi sono locande che possono offrire stanze a prezzo economico.
Per mangiare, vi sono numerosi ristoranti tipici a Paluzza e Arta Terme e qualche localino a Timau e Cleulis (da non perdere polenta e frico e, se siete nella stagione giusta, i cjarsons, caratteristici agnolotti locali farciti con i più svariati tipi di ripieno, a seconda del paese di produzione; ottime anche le grappe). L’ultimo supermercato è l’Eurospar di Tolmezzo (nei paesi della valle vi sono comunque piccoli negozi di alimentari).

Periodo ideale
La parete del Panettone è esposta a sud-ovest, calda in piena estate. Ideali la fine della primavera e l’inizio dell’autunno. Data la quota e le particolari condizioni climatiche della zona, i periodi più vicini all’inverno possono risultare troppo freddi (d’altra parte ho visto la parete pulita e invitante anche in quella stagione).

Post scriptum 2001
“Che ci faccio qui?”. La sibillina domanda di chatwiniana memoria mi risuona nella mente come un ritornello, mentre, incastrato in un camino formato da una grande lama addossata alla parete, cerco di trovare il sistema che mi consenta di salire strisciando fuori da quella trappola. È vero: ho un sicuro fix da 10 mm davanti al naso. Ed, è vero, sono così ben incastrato che potrei stare lì per tre giorni, volendo. Però sono a ottanta metri da terra, su una prua aggettante che dà su un vuoto da cartolina. E, tanto per cambiare, causa la cronica mancanza di compagni in zona, sono in autoassicurazione. Finalmente riesco a puntare in qualche modo il piede destro più in alto, abbastanza da raggiungere il bordo superiore della foglia di roccia contro cui sono incastrato, e, con un movimento da contorsionista, afferro una serie di ottime prese… dietro la mia schiena, tirandomi fuori dal budello.
Entusiasmante! Polvere di stelle (VII- o VI/AO) alla Scogliera di Pal Piccolo è davvero una bella via. Se penso che De Rovere, Cucci e Morocutti sono saliti lungo questa linea solo con nut e friend, mi vengono i brividi.
Arrivo con qualche altro contorsionismo in sosta, fisso la corda (strano: oggi non mi sta dando nessun problema), scendo a ritirare il materiale, mi rifaccio il tiro (stretching per le spalle compreso) e riparto. La via prosegue lungo una rampa che dà sul nulla. Che cosa troverò, la dietro?

Avrei poi scoperto che le avventure per quel giorno non erano ancora finite: il diedro rampa del quinto tiro mi avrebbe opposto due verticalizzazioni di ostica impostazione. E non mi sarebbe stato facile neanche trovare una via d’uscita nel dedalo di roccette subito sotto la conclusione della parete, né superare lo sbarramento di mughi che mi impediva l’accesso al sentiero di discesa (200 m in quaranta minuti!), sul quale ebbi pure modo di incontrare una vipera di dimensioni omeriche, la più grossa da me mai vista in zona. Tuttavia quella sarebbe stata senza dubbio una delle più belle salite della mia strana estate 2001: un altro viaggio ai confini del mondo.

La via
Polvere di stelle è un tracciato aperto nell’ormai lontano 1980 in stile pulito da De Rovere e C.. Recentemente riattrezzato a sicuri fix del 10, consente di salire la bella parete della Scogliera lungo un sistema di fessure di roccia ottima. Se si scende in doppia dal quinto tiro (con due corde, soluzione consigliata), non serve materiale. Se invece si esce dalla parete arrampicando, sono utili friend medi. Una volta sui prati sopra la via, conviene alzarsi (di poco, 30-40 m al massimo) e cercare tra i mughi un passaggio a destra (faccia a monte) che conduca alla ripida rampa erbosa a sud (destra) del salto. Tramite questa si giunge rapidamente al sentiero alla base delle pareti. Se si sale ancora, si potranno comunque vivere eccitanti avventure cercando una via d’uscita nel soprastante labirinto di mughi e tentando nel contempo di riportare a casa le gambe intere senza essere divorati dalle terrificanti “aspidi giganti di Pal Piccolo”. Adrenalinico, più del bungee jumping… Parola mia!

Estate 1993 – Estate 2001

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