Assumersi la responsabilità
Una rocambolesca e, per fortuna, riuscita
ripetizione della via Ezio
Polo al Piz Serauta
“La “Ezio Polo”? Ah, la via degli uccelli padùli…” – così
Giovanni aveva ribattezzato la linea di Aste alla Sud del Piz Serauta
mentre, una sera d’estate, stavamo scendendo dal rifugio Falier, dopo
una ripetizione parziale della Spada nella Roccia alla Parete
d’Argento.
“Dev’essere davvero una via orrenda…”, aveva continuato, pensando che
l’itinerario salisse lungo uno dei camini di melafiro che segnano la
montagna da cima a fondo, “con roccia marcia e sporca di guano”.
Ero quindi già prevenuto quando, un mese dopo, Dario mi aveva
chiesto di ripetere con lui la via. Ma sapevo che era un arrampicatore
forte ed esperto. Pensai quindi che avesse comunque valutato con molta
attenzione l’itinerario prima di deciderne la ripetizione. Inoltre,
nelle settimane precedenti, con Giovanni, avevo salito la Via degli
Scoiattoli a Cima Scotoni e la Costantini-Apollonio alla Tofana di
Rozes. Mi ritenevo abbastanza preparato, almeno sul VI. Pensai quindi
che, eccettuati i tiri duri (due di VII- e uno di VII+), avrei potuto
fare tranquillamente da primo quasi tutta la via.
In breve, quel 13 agosto sera, mentre con Dario attraversavo una Val di
Fassa invasa dai turisti, ero ragionevolmente preoccupato come prima di
ogni salita impegnativa.
Trascorremmo la notte bivaccando all’aperto sopra Malga Ciapela,
all’imbocco del sentiero per il Falier, accanto a due tedeschi che il
giorno successivo avrebbero ripetuto Tempi Moderni.
La sveglia, alle 4.00, fu seguita da una colazione a base di
un’abbondante dose di caffè che, poco abituato alla caffeina
come sono, mi sbalestrò completamente.
Salimmo di buon passo a Malga Ombretta e, da qui, alla Cengia dei
Camosci.
Il sole stava cominciando a sorgere e illuminava con i suoi
raggi radenti i prati e le montagne intorno. Tutto appariva soffuso di
una vaga aura luminosa. Il giorno si preannunciava radioso.
All’attacco della via, che saliva non lungo i poco solidi camini di
melafiro, ma alla loro sinistra, percorrendo un sistema di fessure
ascendente verso sinistra, chiesi a Dario che fosse lui a partire, in
modo che potesse trovarsi davanti sui tiri difficili. Non volevo fargli
perdere tempo sulle lunghezze più
difficili.
Nonostante la roccia non proprio ottima (comunque niente merda di
uccelli), arrivammo rapidamente alla prima difficoltà della via:
il primo tiro di VII-. Marco Furlani, quando disegna le sue relazioni,
si dimentica spesso qualche pezzo, per cui, se si seguono le sue
indicazioni alla lettera, non è del tutto improbabile che si
perda l’orientamento. Così accadde a noi: ci mancava una
lunghezza.
Dario, che era davanti, anziché proseguire sul fondo della
fessura-diedro che costituiva la direttiva di salita, prese più
a sinistra lungo una placca tecnica sprotetta, ma invitante (V+/VI-) e
arrivò ad una sosta. Di lì non si capiva da che parte si
dovesse proseguire.
Toccava a me. Salii qualche metro lungo una sottile fessura
strapiombante e arrivai ad un chiodo. Di fronte a me si stendeva una
placca liscia senza ombra di protezione. Di lì non si passava.
Scesi in sosta arrampicando.
Dovevamo rientrare a destra. Dario riprese il comando della cordata,
scese di qualche metro verso destra, piantò un chiodino a lama e
continuò a tagliare in traversata la successiva difficile placca
(VII, più o meno) puntando al fondo del diedro. La sosta era
sopra una larga fessura strapiombante dai bordi slabbrati e poco solidi
che costituiva la continuazione del gran diedro centrale e lungo la
quale probabilmente era salito Aste (in qualche angolo della memoria
avevo il vago ricordo di un racconto dell’alpinista roveretano nel
quale si faceva cenno a tronconi di manici da scopa usati per il
superamento di un passaggio ostico; forse il racconto si riferiva a
questa via). Comunque per fortuna eravamo sopra il punto critico.
Dario commentò che difficilmente sarebbe riuscito a passare
pulito, se avesse dovuto salire lungo la fessura. E in artificiale
sarebbe stata dura: non avevamo friend abbastanza grossi.
Il tiro successivo, un diedro inclinato molto aperto e fessurato sul
fondo, con successivo traverso a sinistra su roccia delicata, era di
VII-. Non mi opposi quando Dario disse che avrebbe fatto lui da primo
il tiro. Curiosamente trovai quel VII- facile.
A quel punto la via si sdoppiava. Se si fosse proseguiti dritti, si
sarebbe finiti sulla variante Aste-Navasa, più corta ma
più complessa della via originale. Dario pensava che la nostra
via salisse dritta superando un primo muretto e la successiva fessura
appena strapiombante. Io invece credevo che la via piegasse a sinistra:
la fessura non sembrava per niente banale, mentre il tiro, secondo la
relazione di Furlani, non avrebbe dovuto essere superiore al V.
La lunghezza toccava a me. Superai il muretto sopra la sosta e arrivai
ad una cengia inclinata sovrastata da strapiombi. Dario mi
suggerì di proseguire dritto. Io sarei invece andato a sinistra.
Traversai quindi in quella direzione e cercai l’eventuale prosecuzione
della via, ma guardai con poca attenzione e non vidi niente. Tornai
quindi a destra, piazzai un friend e salii lungo la spaccatura
aggettante. I suoi bordi non erano solidissimi, per cui ebbi il mio bel
daffare per salirne i dieci metri strapiombanti.
Arrivai ad una nicchia servita da un grosso chiodo ad anello. Il posto
mi dava un senso di grande sicurezza, come un’isola di
tranquillità in mezzo ad un mare in tempesta. Ma era evidente
che la nostra via non saliva di lì: non era in alcun modo
possibile traversare a sinistra; l’unica prosecuzione evidente era
costituita da una fessura verticale sopra la sosta. Feci salire Dario.
Fu chiaro a tutti e due che dovevamo tornare indietro.
Nel frattempo il
cielo si era rannuvolato. Si sentivano tuoni cupi risuonare in
direzione della Marmolada. E la Civetta era avvolta da una cortina di
pioggia.
Dario mi fece fretta. Sarebbe stato pericoloso prendersi un temporale
in parete. Lo calai alla cengia. Da lì traversò a
sinistra e… trovò la sosta, vomitandomi addosso una valanga di
improperi. Evidentemente non ero salito abbastanza da
vedere i chiodi di sosta.
Mi calai a mia volta alla cengia, feci per recuperare la corda, ma
quella non si mosse. Si era incastrata da qualche parte. Ero forse
stato poco attento a sistemare bene il nodo? Dario fu costretto a
raggiungermi dov’ero (altre irripetibili parolacce a me rivolte) e, con
un paio di tironi ben assestati, riuscì a convincere la corda a
scorrere. Recuperatala, feci sicurezza a Dario e lo raggiunsi in sosta.
Il mio errore ci era costato un bel po’ di tempo. Mi sentivo colpevole
e incapace. E stavo andando completamente in palla.
Dario, di fretta per il maltempo che ancora incombeva, attaccò
il tiro successivo (VII+), superò in libera il tratto chiave e
raggiunse la sosta. Io salii molto più lentamente: la stanchezza
e lo scoraggiamento cominciavano a farsi sentire. Inoltre lo zaino, sul
quel tiro strapiombante, mi impediva di muovermi con la dovuta
precisione. Tirai i chiodi sul tratto di VII+ e arrivai in sosta
stravolto.
Nonostante la stanchezza, chiesi a Dario di fare ugualmente il tiro
successivo (pensavo che, se mi fossi arreso alla depressione che mi era
piombata addosso, sarei stato ancor più di peso). Superai, con
una certa fatica, lo strapiombino sovrastante la sosta (V+, un po’
tirato) e feci salire Dario, che risolse rapidamente il non banale tiro
successivo. Per arrivare in vetta ci mancavano solo 150 metri di
placche appoggiate dalla roccia non molto solida che superammo in
conserva. Annebbiato dalla fatica, riuscii a combinarne un’altra delle
mie: non recuperai un chiodo di protezione che Dario aveva piantato a
circa metà placconata. Ne sentii su ancora. Non capivo come mai,
quel giorno, ne combinavo una più del buon Bertoldo, compagno di
Cacasenno.
Faticai anche a star dietro a Dario durante il rientro lungo
l’affiliata cresta del Piz Serauta e giù per i canalini di rocce
rotte che seguirono. Fui comunque abbastanza veloce da consentire ad
entrambi di arrivare alla funivia in tempo per prendere l’ultima corsa.
Scendemmo a Malga Ciapela. Io, per farmi perdonare, corsi all’attacco
del sentiero a prendere la macchina.
Sistemammo il materiale e partimmo. Nonostante i miei pasticci, eravamo
stati rapidi: avevamo impiegato 10 ore. Arrivammo a casa col sole
calante.
La settimana successiva, con Giovanni, avrei salito la Aste al Crozzon
di Brenta: difficoltà inferiori, ma una via comunque impegnativa
e difficile. Condussi molti tiri duri da capocordata. E tutto
andò bene. Mi ero assunto in prima persona la
responsabilità della salita.
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