Buitres
Viaggio oltre i confini del mondo
attraverso una Spagna metafisica

“Che cosa sono, quelle macchie bianche, quei… buchi?”.
È Ralf a parlare.
Siamo fermi a una curva, a qualche centinaio di metri dal paese. Guardiamo sbigottiti.
I Mallos sono davanti a noi, avvolti in una cortina di pioggia. Fanno paura.
Riglos, ai piedi delle pareti rosse, sembra avvinto in un incantesimo di sonnolenza.
“Merda di uccelli…”
Forse “guano” sarebbe più elegante. Ma ora, sotto questa merdosa, fredda acqua battente che ci accompagna da stamattina, alla nostra partenza da L’Albì, “merda di uccelli” mi è uscito proprio spontaneo.
Scatto ancora una foto. Poi saliamo in auto ed entriamo in paese.



buitres

"Riglos, ai piedi delle pareti rosse,
sembra avvinto in un incantesimo di sonnolenza"

Aveva lanciato Ralf l’idea: un volo low cost fino a Barcellona e poi, con un auto affittata, una puntata alle falesie della costa Daurada prima dell’affondo a Riglos.
Il teutonico, che durante il viaggio avrebbe preso il nome di El Alemano, era rimasto stregato dalle foto del solito entusiastico articolo dell’altrettanto solita rivista e da un nome: La Fiesta del Biceps, una delle vie più belle e rappresentative della regione. Ci aspettavamo un’entusiasmante arrampicata su buone prese al tiepido sole invernale dei Pirenei.
A me era piaciuta anche la guida inglese alle rocce della zona di Montsant: Siurana, La Mussara, Arbolì… Quale arrampicatore degno di questo nome non avrebbe dedicato almeno un pensiero alla possibilità di una visita ai muri di quelle falesie lontane, ma, a detta degli autori, sempre baciate dal sole?
Avevamo cercato di convincere altri, invano.
Forse gli amici, timorosi, presagivano che, come spesso accade, anche questa puntata esplorativa sarebbe stata un fallimento. O forse sentivano l’umidità invernale nelle ossa e le giunture non più giovani cigolare e avevano optato per mete più domestiche.
All’ultimo rendez vous ci eravamo contati: i soliti due.
“C’è un brutto coso, un ricciolo strano sul Mediterraneo occidentale…”, avevo detto.
“Un… che cosa?”.
“Uno strano fronte, sul mare davanti a Barcellona… Si sta avvolgendo su se stesso. Prima le correnti venivano da nord e si fermavano sopra i Pirenei. Adesso entrano da ovest, si avvitano sul Mediterraneo occidentale e mandano nuvole cariche di pioggia proprio nella zona in cui andremo noi. Le previsioni danno precipitazioni a partire da sabato. Che cosa facciamo?”.
“Abbiamo giù preso i biglietti”, aveva chiuso corto Ralf. “Non c’è molto altro da fare… Daremo il massimo venerdì”.

Insomma, anche noi iniziavamo a presagire che sarebbe stato un disastro.
Ma sempre meglio, pensavamo, che quattro viaggi a Berlino in dieci giorni, come era capitato al tedesco nell’ultimo periodo prima delle feste, o che un conflitto dietro l’altro da risolvere sul lavoro, com’era capitato a me, il mal di stomaco da stress, la nausea da abbuffate, giorni grigi nell’inattività più totale prima di ricominciare la folle corsa.
Così eravamo partiti.
Consapevoli che avremmo speso 200 euro a testa solo per volo e affitto auto e quasi niente per il resto: come barboni, dormendo in tenda e mangiando lo stretto necessario. Magari un caffè o qualche birra in un bar, ma niente ristoranti, alberghi o altre comodità.
Vita dura, insomma.
Certe volte il cuore umano è proprio strano.

La sera di giovedì atterrammo a Girona: aveva appena piovuto.
Una nebbia stanca si alzava dai prati ai margini dell’aeroporto e nascondeva lo spicchio di luna su cui Ralf aveva contato per risparmiare la scarsa riserva energetica della nostra unica frontale.
El Alemano dovette perdere alcuni minuti a negoziare con la tipa del rent-a-car, una che, secondo lui “…, a detta dei tedeschi, va in giro con i pantaloni” e che insisteva a farci acquistare questa o quella garanzia aggiuntiva. Poi arrivammo all’auto: una berlina quasi nuova che a me, abituato al mio sgangherato mezzo abituale, sembrò bellissima, profumata, con molto spazio e dotata di una magnifica radio.
“Benvenuto nel mondo moderno”, fece Ralf.
E imboccammo l’autostrada verso Barcellona.

Pochi chilometri a nord di Reus, ai bordi di un uliveto, trovammo uno spiazzo per la tenda.
Mi ci volle un po’ per riabituarmi al suolo duro e molto per addormentarmi: la notte trascorse interminabile tra sogni confusi.

Il giorno dopo, all’alba del mio trentanovesimo compleanno, stavamo salendo i tornanti della strada che porta a La Mussara. Il cielo era sempre grigio; ma almeno non pioveva.
Riuscimmo a fare tre vie. Poi arrivò l’acqua.
“Andiamo a Siurana”, disse Ralf.
“E perché non restiamo qui?”, pensavo. “A Siurana non sarà meglio. E se smette di piovere, non spostandoci, avremo più ore di luce per arrampicare”.
Ma non avevo detto niente.
È un errore.
Dovrei parlare di quello che mi interessa. Altrimenti divento passivo.
Ma forse in quei giorni ero stanco di negoziare. E scelsi di vivere, almeno per qualche ora, al traino.



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"Riuscimmo a fare tre vie"

Siurana ci accolse con la sua incredibile, frastagliata cintura di pareti brune, gialle e nere.
Ralf scelse un settore della parte bassa e salì un 6a di riscaldamento prima di lanciarsi su Mandragora, un 7b tecnico e dalla chiodatura lunga. Alla faccia di chi dice che a Siurana i tiri sono facili…
Poi la pioggia, sottile e incessante, ci avvolse di nuovo. Corda e imbraghi tornarono nello zaino.
Là dietro c’era La Rambla¸ 9a+ sulla carta. Perché non andare a dare un occhio?
Mentre ci avviavamo, incrociammo un ragazzo che tornava alla strada.
Ralf, più pronto e socievole, aggiunse al solito “Hola”, anche un “Do you know where is La Rambla’?.
E quello rispose: “Italiani?”.
Non so da che cosa lo avesse capito; l’accento di El Alemano è, appunto, teutonico anche quando parla inglese.
“Sì, di Brescia”.
“Ah, Brescia! Io sono basco, ma vivo a Torino”, disse lui. “Vi ci porto io”. E con passo da lupo (se lo avessi incontrato di notte in un bosco, non avrei potuto vederlo che come un lupo) ci condusse sotto un’impressionante fessura strapiombante.
Mentre camminavamo, Ralf, affannato, cercava di spiegare al basco che lui viveva in Italia, ma era tedesco.
Non solo il cuore degli uomini è strano. Sono gli uomini stessi a essere più strani, e le loro storie più intricate, di quanto non appaia a prima vista.

Nel vedere i rinvii già piazzati sui primi spit, mi venne spontaneo dire: “Se ci fosse qui chi sappiamo noi, farebbe un tentativo, salirebbe al secondo spit, scenderebbe e poi direbbe di aver messo le mani su un 9a+”.
“Sempre che non cada prima di arrivarci…”, commentò Ralf.
In effetti le protezioni, anche le più basse, soffrivano di una certa solitudine.
La pioggia rinforzò. Tornammo all’auto e salimmo al paese.
Ormai era calata l’oscurità.
Per una strana convenzione di cui, nonostante i numerosi tentativi di spiegazione di Ralf, non avevo capito l’utilità, in Spagna, come riferimento per l’ora, si considera non il meridiano di Greenwich, ma quello dell’Europa centrale. Se questo comportava lo svantaggio di un’alba ritardata rispetto all’Italia, aveva anche un vantaggio: le tenebre avvolgevano le cose non prima delle 18.30.
E noi proprio poco dopo le 18.00, e quindi alle prime ombre della sera, iniziammo il nostro tour nella Siurana by night. I pochi locali del villaggio erano deserti e le strade vuote e poco illuminate, oltre che bagnate. Però il paese aveva un suo fascino, immerso nei suoni liquidi, tintinnanti e sottili della pioggia che cadeva sull’acciottolato.
Salimmo anche a dare uno sguardo al rifugio.
All’entrata la minuscola gestrice schizzò fuori dalla porta volandoci quasi in braccio.
Con spavento reciproco noi e lei facemmo un passo indietro. Poi lei, ripresasi, passò oltre.



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"Ralf scelse un settore della parte bassa
e salì un 6a di riscaldamento
prima di lanciarsi su Mandragora,
un 7b tecnico e dalla chiodatura lunga"

L’unico locale aperto in paese era il bar del campeggio.
Nell’avvicinarci, incrociammo due stupende ragazze tedesche. Forse mi apparvero tali perché le rocce e il teutonico, con cui avevo passato tutta la giornata, per quanto interessanti, non potevano certo essere definiti “sexy”. Fatto sta che ne ero rimasto incantato.
Ralf, ammogliato, passò oltre entrando senza cedere loro il passo.
Io, soltero, feci il cavaliere e le lasciai passare. Ma quelle non mi degnarono né di uno sguardo, né di un grazie e si rivolsero subito al gestore del bar e a un suo collega inglese coi quali si misero a discettare non capii bene di che cosa.
Ci sedemmo a un tavolo.
“Tu che conosci lo spagnolo, ordina due birre”, propose Ralf.
“Io conosco lo spagnolo? E da quando?”, mi venne spontaneo ribattere. “Poscia, più che ‘l dolor – per il timore di non essere capito – poté ‘l digiuno” e accolsi il suggerimento del teutonico. Andai al banco:
Dos cervezas, por favor”.
Funzionò.
La ragazza al banco, non avvenente come le avventrici incontrate all’ingresso, mi dedicò un po’ più di attenzione e mi consegnò le due birre.
Dos euros y vinte”.
Solo? Il paradiso dell’arrampicatore alcoolizzato!
Presi le birre e le portai al tavolo.
Affamato e assetato, bevvi la mia tutta di un fiato.
L’alcool entrò subito in circolo. Sprofondai in uno stato di piacevole torpore, mentre Ralf mi spiegava (nella mia più completa disattenzione) che forse era il caso di usare il giorno successivo, di pioggia certa, per spostarci verso Riglos.
Acconsentii, senza capire bene a che cosa.
Viaggiammo verso nord per strade perse in luoghi selvaggi, incrociammo una volpe e un cinghiale e, a L’Albì, un paese sperduto alle pendici delle colline, ci fermammo. Ralf era stanco di guidare.

Per tutta la notte piovve.
Il sottile ticchettio delle gocce d’acqua sul telo ci accompagnò fino all’alba, livida.
Restava poco da fare se non togliere la tenda e partire in direzione di Lerida (la Lleida catalana).
Fu proprio il doppio nome della città a ricordarmi che lì eravamo in Catalogna e che lì si parlava il catalano e non il castigliano. La cosa avrebbe reso ancora più complicate le nostre già difficili transazioni linguistiche con chi avremmo incontrato sulla nostra strada: che cosa avremmo dovuto tentare di parlare? Catalano? Castigliano? O forse basco?
All’autogrill al quale ci fermammo per bere qualcosa che ci scaldasse le ossa, la cioccolata che ordinò Ralf fu riportata sullo scontrino come “xocolata tassa” (“tazza di cioccolata?”).
Aggiunsi all’elenco delle lingue utilizzabili anche l’azteco antico, o in alternativa, il più recente e popolare nahuatl.

Lleida ci accolse sotto l’acqua.
Cercavamo nell’ordine un internet point per una consultazione di aggiornamento dei siti meteo, un supermercato per le provviste e qualche monumento caratteristico da visitare.
Procedemmo in senso inverso: prima la visita al castello di Lleida, dove io intrattenni Ralf con una mia versione quasi del tutto inventata della storia spagnola tra il VIII e il XV secolo. El Alemano sembrò irritato dal fatto che gli spagnoli avessero assorbito influssi arabi (evidenti nelle architetture che avevamo davanti agli occhi) solo dopo averli cacciati. Forse avrei dovuto spiegare a Ralf che anche gli arabi avevano conquistato e ridotto a loro servi gli antenati dei futuri conquistadores, e che, alla fine, come dice Vico, la storia procede per corsi e ricorsi, con ben poco di nuovo sotto il sole, ma mi limitai. E il mio ragionamento si perse, mentre saltellavamo qua e là tra i bastioni diroccati del lato nord.
Poi scendemmo in città.
Trovammo l’internet point, come altre volte ci era capitato, proprio nel quartiere nel quale si erano insediati i discendenti di quegli arabi cacciati dagli iberici alla fine del XIV secolo. Le previsioni, infauste, davano un tempo appena migliore (nuvoloso, senza piogge), a nord, in Aragona.
Scegliemmo in via definitiva di puntare ai Mallos.
Prima di partire, passammo per un supermercato.
Prezzi bassi… Allora era vero che, in Italia, avevano speculato sul cambio dalla lira all’euro…
Ralf concluse la permanenza a Lleida con un kebab, forse ancora ispirato dalle antiche e recenti vicende storiche spagnole. Poi tornammo alla nostra auto e puntammo a Huesca.

La strada, diritta, in ottime condizioni e molto veloce, attraversava una regione che appariva magnifica anche sotto quella perenne pioggerellina. Avrei detto di trovarmi negli Stati Uniti o in Nuova Zelanda. Praterie verdi e brune si perdevano ondulate a vista d’occhio. Ogni tanto attraversavamo un centro abitato, del quale non si poteva non notare il mix tra arcaico e moderno, caratteristico di un paese prospero e in rapida evoluzione. E ogni tanto valicavamo colline con arenarie affioranti, paradisi boulder non sfruttati.
Intanto la radio suonava musica buona, tutte greatest hits degli anni ottanta e novanta, senza pubblicità e inframmezzate da notiziari ora in spagnolo ora in catalano, dai quali venivamo a sapere, in maniera molto approssimativa, delle per noi disastrose prospettive meteorologiche e di un generale che aveva combinato non capivamo bene che cosa, suscitando un vespaio di polemiche.

Huesca da lontano non parve un granché, grigia in una piana desolata.
Vi facemmo solo una rapida visita.
Il duplice giro sull’anello di strade attorno al centro alla ricerca di un fantomatico e inesistente ufficio turistico ci permise comunque di intuirne la bellezza raccolta.
Poi proseguimmo verso nord, passando per Ayerbe e cercando la deviazione per Riglos.

Prima vedemmo le pareti sopra un paese, sul fianco destro orografico della valle, e le scambiammo per i Mallos.
Poi più a est, la sorpresa: immersi nell’accennato grigio lattiginoso della pioggia, i magli rossi, con le loro forme da insolite Dolomiti arrotondate…
“Inquietano”, aveva commentato Ralf.

Eravamo scesi a una curva panoramica e ci eravamo fermati a guardare impressionati.
“Che cosa sono, quelle macchie bianche, quei… buchi?”, aveva chiesto Ralf.
Io avevo risposto “buchi di merda”. O qualcosa del genere.

E ora siamo qui.

Ripartiamo per Riglos.
La pioggia diminuisce. Ralf non riesce a trattenersi e propone un giro alla base delle pareti. Sotto le ultime gocce arriviamo alla base del Pison. Subito scorgiamo una chiara linea che attacca in corrispondenza di un diedro: la Murciana, di Rabadà e Navarro. Più a sinistra altri spit, alcuni non molto rassicuranti, qualche chiodo o cordini vecchi qua e là…

Al cessare della pioggia si alzano in volo i creatori delle macchie bianche, grandi gipeti che incrociano le loro traiettorie sulle nostre teste…
“No, non siamo ancora carogne, o almeno non nel senso che vorreste voi…”, penso.
Giriamo dietro lo spigolo ovest del Pison e diamo uno sguardo allo slanciato Mallo Fire.
Mentre siamo nei pressi dei monotiri sul versante ovest del Pison, cadono pietre.
Comunico a Ralf il sospetto che gli avvoltoi abbiano intenzione di stenderci a sassate, ma El Alemano mi rassicura: “Figurati!”.
Fiiiuuu… Toc!
Un altro sasso…
“Pensa quello che vuoi, Ralf, ma io mi tolgo da qui”.

In breve arriviamo all’unico locale aperto del paese, il bar gestito da Toño, guida e fortissimo arrampicatore di Riglos.
Ordiniamo qualcosa da bere e ci sediamo, leggendo una guida dei Mallos scroccata a un gruppo di españoles (così li chiamerà Toño nell’indomani) che, in quel giorno di pioggia, hanno salito Mosquitos alla Visera.
È la parete più impressionante del gruppo principale: in alto crea un’elegante parabola, così strapiombante da proteggere intere vie dalla pioggia.
Incerti sul da farsi (“Pioverà, non pioverà, riusciremo a salire?”), chiediamo consiglio a Toño.
Si tiene gana de escalar, algo se puede hacer”. Qualcosa potete fare, se volete: magari i primi tre tiri di Mosquitos e poi la parte più interessante di Zulu Demente, gli ultimi cinque tiri.
“E La Fiesta?”, chiediamo.
“È buona anche La Fiesta… Dovrebbe restare asciutta, almeno in alto”.
Confabuliamo ancora un po’ tra noi, poi salutiamo Toño e andiamo. Sta arrivando il buio. È meglio sistemare la tenda, prima che sia troppo tardi.
Scendiamo a valle. In un boschetto troviamo una radura: fondo morbido e tetto di frasche. Potrebbe essere un buon campo base…
In due minuti la nostra casa portatile color giallo sabbia è pronta.

“Andiamo a cercare un posto per mangiare”, fa Ralf. “Basta una piazza, una tettoia sopra la testa e la luce dei lampioni”.
Non lontano, a nord, si scorgono le luci sontuose di un paese. Sembra fare proprio al caso nostro. Scopriamo che è Murillo de Gallego, il centro accoccolato sul versante ovest della valle che avevamo visto nel pomeriggio: un pugno di case vecchie ma ben tenute, con una piazza e una chiesa in stile medioevale illuminate ad arte.
Scendiamo dall’auto e mangiamo la nostra cena al freddo, sotto la pioggia - la tettoia non c’è - e respirando un’aria umida che sa di fumo.
In giro non si vede un cane.

Il freddo incalza. E nel paese non sembrano esserci bar degni di questo nome.
Allora saliamo in auto – l’itinerante vita dell’arrampicatore barbone - e puntiamo verso Ayerbe.
Sulla strada, più a valle, vediamo le indicazioni per un paese dal nome strano, Agüero, e ci lasciamo vincere dalla curiosità.
Agüero, il paese dispensatore acqua?”, mi viene da pensare. “E poi ha strane assonanze con diablero, il nome di uno stregone in grado di diventare animale…”.
I posti che attraversiamo, spettrali, sembrano dare conferma anche a questa seconda interpretazione del nome. Ma i fari, spazzando il terreno circostante alla strada, non mostrano altro che un fondo arido, cespugli bassi, qualche sparuto albero e sporadiche farfalle impazzite che si uccidono precipitandosi addosso alle luci del nostro mezzo.
Arriviamo al paese.
Ralf è attratto da un bar vecchio stile.
Parcheggiamo l’auto ed entriamo.
Alla prima boccata dell’aria calda e fumosa del locale, i miei polmoni si raggrinziscono. Da quanto non respiro quest’aria pesante? Dovrò riabituarmici.
Alcuni uomini discutono in cerchio. Qualcuno beve. Sembrano cospiratori.
Ci rivolgono uno breve sguardo tra il curioso e il distratto. Poi tornano alla loro discussione.
Dos cervezas”, ordino. Ormai sono diventato bravo.
Prendo le birre e ci sediamo a guardare la televisione. Su Canal Cinco danno un gioco a premi con pacchi identico a quello che trasmettono in Italia: potenza della globalizzazione…
Non so se scegliere di sentirmi più annoiato o nauseato. Ma almeno lì fa caldo. E poi quel vecchio bar di montagna, con quelle persone e quegli odori aspri, mi ricorda l’infanzia. Che strano: tutte queste cose familiari, così opposte, in un luogo tanto lontano da casa…
Mi perdo a guardare il conduttore, un tipo aitante, che convince una signora bionda, gordita, a lasciare 6000 euro per pochi centesimi. Poi con il torpore provocato dall’alcool arrivano la stanchezza e l’ora di scendere.



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"Murillo de Gallego (...):
un pugno di case vecchie ma ben tenute,
con una piazza e una chiesa in stile medioevale
illuminate ad arte"

All’alba ancora qualche goccia.
Siamo indecisi se salire ai Mallos o meno.
Ma non siamo mammolette (o almeno pensiamo di non esserlo): pochi minuti d’auto e siamo da Toño.
Mentre beviamo qualcosa di caldo, valutiamo il da farsi: provare La Fiesta? Zulu Demente? Stare alla base?
Entrano due giovani. Scambiano poche parole con Toño e poi partono per la parete. Mentre noi discutiamo indecisi, loro si fanno i primi due tiri de La Fiesta.
Dobbiamo andare.
Toño ci suggerisce ancora Zulu Demente. Ma io non conosco lo stile di arrampicata sui Mallos e preferirei qualcosa di più facile, giusto per prendere le misure.
Mosquitos, fino a El Trono”, fa Toño.
Massimo 6a e calate in doppia dall’evidente terrazzo formato da un grande macigno consolidato nel conglomerato. Sarà forse umido sul primo largo. E poi sempre asciutto.
Sì, può essere la nostra via.

La parete, vista dall’attacco, opprime: quella curva che si accentua man mano che il muro sale sembra un’onda anomala pietrificata…
In alto gli avvoltoi si sono alzati in volo e percorrono ordinate traiettorie circolari sopra di noi. Non so se considerarlo un buon segno: se quegli uccellacci abbandonano i loro nidi, vuol dire che per un po’ non dovrebbe piovere. Ma potrebbero anche aver adocchiato le nostre non più tenere carni…
I due ragazzi su La Fiesta non sembrano preoccuparsene. Sono più impegnati dal terzo tiro, che non appare di facile soluzione.
Intanto si è alzato un vento freddo. Meglio muoversi. Parte Ralf e fa il primo tiro, con qualche ambascia per la prima protezione, alta e bruttina.
Poi tocca a me, un secondo tiro che potrebbe benissimo trovarsi in Valle del Sarca per geometrie e colore della roccia, se non fosse per quelle strane prese tonde che richiedono movimenti da pannello. È davvero insolito.
Verso la fine della lunghezza la relazione annuncia “roccia instabile”. E infatti alcuni blocchi tondeggianti sono male accoccolati nel cemento di sabbia ed argilla che li tiene in sede e si muovono come denti in alveoli dai bordi allentati. Fa una certa impressione.
Dalla sosta si vede la linea di Zulu Demente. Sul rosso della parete, le tracce di magnesite sulle prese creano un alone più chiaro. E l’alone individua l’itinerario. Incredibile...
Nella mia mente passa come un ombra l’idea “Se avessimo portato le scarpe per scendere…” Ma ormai è tardi: le scarpe sono cento metri più sotto.
Arriva Ralf e passa davanti. Un altro tiro in diedro, strano. E poi l’ultimo, riservato a me, traverso esposto su prese ottime, con qualche brivido per la chiodatura prima di rimontare su El Trono. Sarebbe bello proseguire, ma dal colatoio del tiro successivo scende un ruscello d’acqua.
Intanto il vento gelido è rinforzato. Scendiamo in doppia, mentre i due de La Fiesta, ormai all’uscita, cacciano un urlo di trionfo e spaventano gli avvoltoi, che si alzano in volo.

Hola!”, e poi una serie di parole che non capisco.
La ragazza mi sorride e mi parla. Il suo compagno la segue a pochi passi di distanza.
“Hem… Hola… No hablo español”.
Dire che non parlo spagnolo parlando in spagnolo è quanto meno paradossale. Ma sto facendo sicurezza a Ralf che è su un monotiro con chiodatura ariosa alla base della parete ovest del Pison e, preso alla sprovvista, non riesco a escogitare una risposta migliore.
La ragazza si rabbuia: forse non capisce. Poi si siede.
Lei e il suo compagno tirano fuori dallo zaino qualcosa da mangiare, lo scaldano e si mettono a lavorare di ganasce.
Nel frattempo Ralf, ostinato, arriva in catena senza riposi. 6c? 7a? Io, da secondo, ho il mio bel daffare ad arrivare in cima pulito. Intanto, oltre alle prime gocce della nuova ondata di pioggia, cadono ancora pietre. “I soliti avvoltoi cecchini”, penso. I due baschi – “escludendo catalano e castigliano, forse parlavano basco”, rimugino – stanno per andarsene.
Io chiedo alla ragazza: “Arrampicate domani?”. Domani è lunedì.
Lei mi guarda strano. Forse pensa: “Ma chi sono questi tizi, che possono permettersi di arrampicare anche il lunedì?”. Ma dice: “No, mañana borasca”, o qualcosa del genere.
Borascja” in carnico significa “neve piccola e fitta con vento gelido”.
Ma le previsioni non davano una pausa?
Forse in basco “borasca” vuol dire “nuvoloso con vento”… “Non raccontarti palle, hombre…”, immagino mi dica la ragazza.

Ralf fa un altro tiro.
Poi concludiamo la nostra giornata di arrampicata e rientriamo al paese. Da fuori si vede subito che il bar di Toño è pieno. Forse ci sono anche i due ragazzi de “La Fiesta”. Potremmo chiedere loro qualche informazione…
Ma Ralf tira dritto.
Preferisce andare a mangiare qualcosa ad Ayerbe e ritirarsi poi nella tendina a far fuori una bottiglia di rosso acquistata a Lleida. È l’unico arrampicatore che io conosca in grado di trasformare in energia metabolica qualunque intruglio abbia un seppur minimo potere nutritivo.
Il giro ad Ayerbe è deludente. Il paese è poco interessante; e i bar tutti pieni.
Allora torniamo alla nostra radura nel bosco, piantiamo la tenda e ci infiliamo nei sacchi a pelo.
Il rosso, troppo tannico, non mi piace.
Così Ralf, mentre parliamo dei mille accidenti della nostra faticosa vita, piano piano, se lo fa fuori quasi tutto da solo.

È bellissima, quasi eterea…
Longilinea, un viso affilato e capelli corti, di un color rosso fulvo.
È in bikini, col busto voltato di lato.
Mi osserva.
“Perché non guardi mai la posta elettronica?”, mi dice.
“Beh, da qui è difficile…”, rispondo.
Si gira verso di me e allarga le gambe…
È senza mutandine!
“Vuoi?”, mi chiede.
“Non ora”, rispondo.

Mi sveglio. Nella tenda è tiepido.
Qualche goccia di pioggia picchietta sul telo. E il vento soffia con folate rumorose tra i rami. Era un sogno.
Controllerò le email, quando torno a casa.

Smontiamo la tenda e saliamo al paese.
La temperatura sembra buona. E per adesso non piove.
Forse a noi va meglio che ai due ragazzi, ieri.
Anche gli avvoltoi ne sono convinti: escono dai loro buchi e planano lenti attorno alle cime dei Mallos.
Prepariamo il materiale e saliamo alla parete.
Io cerco invano di inquadrare almeno un uccellaccio nel mirino della mia digitale, mentre Ralf si appresta a partire per il tiro, un diedro inclinato a sinistra con una prima sezione di roccia delicata. Poi parte, raggiunge il primo misero spit e prosegue meno preoccupato verso il secondo.
Inizia a gocciolare.
Gli avvoltoi, lassù, sono rientrati nei loro nidi. Brutto segno…
Mentre salgo (il tiro è ostico e con roccia davvero infida), la pioggia si infittisce.
In sosta guardo Ralf.
Avrei la tentazione di chiedere a lui di andare avanti, ma mi faccio forza, mi assumo la mia parte di responsabilità per la salita e prendo a Ralf il materiale.
Ormai il terrazzino inclinato della sosta è fradicio. Parto, raggiungo il primo vecchio spit e punto al secondo, distante. Riesco a integrare con un nut la brutta protezione appena moschettonata e proseguo.
È faticoso arrampicare su questa roccia umida, dalle prese buone, ma strane e distanti. E quando non sono distanti per la morfologia della parete, lo sono perché le sezioni meno che verticali sono intrise d’acqua e viscide.
Quando guardo in alto, vedo le gocce di pioggia scendere, quasi guidate da un’intelligenza remota, lungo la parabola del muro rosso con traiettorie a loro volta paraboliche e mirare con precisione chirurgica alle lenti dei miei occhiali.
Resisto alla tentazione di fermarmi: secondo spit, lungo; terzo, anch’esso lungo, reso ancora più distante da un tratto di roccia che mi richiede una serie di strani movimenti con i piedi appoggiati sul bagnato; quarto, lungo; quinto, vicino, ma ostico da moschettonare.
Il passo successivo si anticipa duro.
Ho le mani fredde e le scarpette rigide come pezzi di legno.
Metto il rinvio, vi passo la corda e mi fermo a riposare.
Lo spit, caricato, si assesta con un sonoro stroc.
Ho un lieve sobbalzo. Ma è tutto a posto.
Provo una prima volta.
Niente da fare: devo proprio appoggiare il piede sinistro sulla placca verticale bagnata…
Altro riposo.
Poi riparto e, con due zampate rese frenetiche dalla paura, arrivo in sosta.
Recupero Ralf che sale in fretta, ma contratto. Sull’ultimo passo non vola per miracolo.
“Che facciamo? Scendiamo?”, fa Ralf.
“No, dai”, penso. “Almeno il prossimo tiro…”. La curva della parete, in alto, sembra proteggerci e la sua fine, lassù, forse per effetto della prospettiva, vicina.
Ralf mi legge nel pensiero. Si scalda mani e scarpette e parte. Difilato, arriva al primo passo impegnativo, circa quindici metri più in alto, lo supera e si porta sotto il tettino poco prima della sosta.
“Metti in tiro!”, urla.
Ha di nuovo le mani intirizzite e le suole delle scarpette come pietra.
Guarda in basso, vede nuvole cariche di pioggia alzarsi dalla parete e cede.
“Basta! Scendo…”.
“Non riesci ad arrivare almeno in sosta?”
“Sì, ma dopo? E se ci viene voglia di continuare? È una sofferenza…”.
Lascia un moschettone nell’ultimo spit e si fa calare.
Con una doppia siamo a terra. La pioggia gelida è battente.
Scendiamo a Riglos, immerso nel torpore di un lunedì mattina qualunque, passiamo davanti al bar di Toño, chiuso, e partiamo mesti. Avessimo seguito i suoi consigli, almeno una via completa, e di una certa classe, ce la saremmo portata a casa. Invece sconfitta su tutta la linea.
“Andiamo a Zaragoza, e poi a Siurana”, fa Ralf. “Almeno facciamo un po’ di turismo”.
Lungo la strada, già in pianura, oltre Ayerbe, in un campo alla mia destra vedo un avvoltoio, forse costretto a terra dalla pioggia. Sui fili dell’alta tensione, a sinistra, un falco e, poche decine di metri più in là, sulla punta di un traliccio, un altro avvoltoio.
Come se i buitres di Riglos avessero voluto salutarci. E consolarci: “Eh ragazzi, quando piove non si vola...”.


buitres

"Recupero Ralf che sale in fretta, ma contratto.
Sull’ultimo passo non vola per miracolo "

Zaragoza è una bella città moderna, molto più europea delle caotiche città italiane.
I campanili della sua cattedrale sembrano la versione umana, in chiave architettonica, dei Mallos. Sono maestosi e imponenti, ma hanno un che di morboso, arzigogolato e vanaglorioso. Di umano, appunto.
Invece i Mallos, lassù, spirano un essenziale, gelido, incontenibile nonsoché, che resta dentro.

Ripartiamo verso Siurana.
La statale da Zaragoza a Lleida, trafficata ma scorrevole, attraversa una brulla distesa ondulata. Di tanto in tanto, sulla cima di qualche collina, si staglia la sagoma nera, una pubblicità, di un grande toro con gli attributi bene in vista.
Il paesaggio è meno bello di quello attraversato nel viaggio di andata. Però la musica alla radio è quella giusta. E ognuno se ne resta in silenzio, con i suoi pensieri, ipnotizzato dal regolare rumore del motore.

Fino a oltre Lleida non ha piovuto. E, ora che ci inerpichiamo sulle stradine del versante nord di Montsant, le strade sono asciutte. Ma dopo pochi chilometri ricomincia.
“Ci segue come la nuvola di Fantozzi”, fa Ralf.
Arrivati a Siurana, è un diluvio.
Al campeggio chiediamo una piazzola, sistemiamo la tenda e ci precipitiamo ai bagni per la prima doccia calda da cinque giorni a questa parte.
Poi l’immancabile birra al bar. Doppia razione, questa sera. Pur con la mente resa ottusa dall’alcool, riesco a spiegare a Ralf le regole della briscola. Lui vince il primo raggio e io il secondo.
Poi, dato che le tipe tedesche sembrano sparite e che i pochi presenti nel bar (il proprietario, il suo amico inglese, una cordata di statunitensi – lui e lei, e un tedesco) chiacchierano di impossibili vie a Trango, optiamo per la tenda.

La notte è fredda e piovosa.
Riesco a dormire poco: il fondo è duro e inclinato. Alle prime luci dell’alba sono già sveglio.
Vado al bar, ma lo trovo chiuso.
E allora faccio un giro esplorativo delle pareti della falesia alta, nei pressi del parcheggio. È un disastro, tutto bagnato.
Oggi non si arrampica.
Torno al bar: sono il primo.
Ordino un “café con leche”, mi gusto la breve, euforizzante ondata di caffeina che mi si riversa nel cervello e mi metto a leggere riviste di arrampicata. Una in particolare spiega come le vacanze arrampicatorie vadano programmate con attenzione: logistica, meteo e obiettivi precisi. Se si vuole arrampicare con soddisfazione a vista, meglio scegliere vie di continuità. E, per evitare di distruggersi le braccia, non più di cinque tiri al giorno…
“Non c’è pericolo…”, penso.
Arriva Ralf e ordina un tè.
Intanto il bar si è affollato. Qualcuno traffica col ricevitore della tv satellitare finché non riesce a trovare un canale di meteorologia. Veniamo così a sapere della “goccia” di aria fredda che staziona sulle nostre teste da ben quattro giorni e del fatto che nel pomeriggio lascerà spazio a un nucleo di pressione più alta che, da dopodomani, porterà bel tempo.
Ci avrei giurato: qualche invidioso da casa ci ha fatto il malocchio…
Poi l’inglese cambia canale e si mette a guardare “Kill Bill 2”.
Il mio super-io produttivistico lombardo, mentre, con occhio da antropologo studia la popolazione del campeggio, si risveglia all’improvviso: “Ma che vita è passare i giorni aspettando il bel tempo per poter liberare qualche monotiro, o per organizzare un trip arrampicatorio negli angoli più sperduti del pianeta? Che cosa resterà di loro, alla fine della vita?”.
E poi, inevitabile, il contrappasso: “E che vita è correre e correre e produrre cose per potersi procurare altre cose e tentare così di soddisfare desideri impossibili da soddisfare?”. Mi sfiora l’idea che loro siano gli ultimi contemplativi, una razza di privilegiati contemplativi postmoderni senza Dio né religione.

Il tempo non si risistema.
Ma Ralf, dopo un’ulteriore, prolungata perlustrazione delle pareti, insiste per provare almeno qualche tiro.
Iniziamo con un 5+ umido. Io, demotivato, arrampico da secondo. Al successivo 6a esce il sole. È tutta un’altra cosa. Ralf si lancia su un bel 6c, che gli riesce pulito, e, sfruttando gli ultimi raggi del sole che sta di nuovo per essere coperto dalle nuvole, prova dall’alto un 7b+.
Intanto, più a sinistra, il ragazzo di punta di una triade di norvegesi sale un 7b con stile impeccabile. I suoi compagni raccontano che, ogni tanto, prendono l’aereo dalla loro terra gelida e vengono qui.
“Questo tempo è insolito”, dicono.
Ma davvero?
Io non ho voglia di arrampicare da primo, anche se toccherebbe a me. Inevitabile, quando si decide di vivere al traino. E allora Ralf, che a mala pena nasconde l’irritazione, sale un 7a (“il più bello del settore”, recita la guida). Però non gli riesce: lo strapiombo finale è bagnato. Io, da secondo, non arrivo neanche in catena. Mi faccio calare, con la motivazione in fondo alle scarpette.
Guardiamo l’orologio. È ora di partire per Girona.
Salutiamo i nordici, ordiniamo le nostre cose sparse ovunque nell’auto e partiamo.

A Girona, al chech in non vogliono accettare lo zaino di Ralf, più pesante di quando eravamo partiti. Contiene la tenda, fradicia dell’acqua di questi giorni…
Ralf prova a estrarre i rinvii e a metterli nel bagaglio a mano. Ma la cosa gli è impedita dall’addetto all’accettazione che teme l’uso improprio dei moschettoni. “Potresti cavare gli occhi a qualcuno”, mima.
Mi immagino Ralf intento nell’operazione...
Sì, probabile…
Poi l’addetto si impietosisce e lascia passare il bagaglio. Ci sediamo per l’ultimo spuntino.
Il tedesco si ritrova tra le mani il coltello che avrebbe dovuto riporre nello zaino destinato alla stiva dell’aereo. Al metal detector lo fermeranno.
“Buttare un coltello? Mai!”. E lo infila in posizione strategica, tra i microfriend e la borraccia di alluminio.
Al varco, inevitabile, lo fermano.
Io passo e aspetto.
Intanto Ralf sogghigna.
Mi avvicino. “Che cosa succede?”, chiedo.
“Hanno trovato i microfriend e stanno impazzendo per capire di che cosa si tratti”.
Alla fine considerano innocui quegli strani aggeggi e riconsegnano lo zaino a Ralf.
Ci si potrebbe scrivere un trattato: “Sull’efficacia delle strategie diversive nel far passare armi improprie attraverso un metal detector all’aeroporto”…

Il volo è tranquillo, con qualche magnifico scorcio su città e paesi della costa ligure e della pianura Padana, illuminati come presepi, e con una panoramica virata su Brescia prima dell’atterraggio.
Poi tocchiamo terra, riprendiamo i bagagli, recuperiamo la mia auto, nascosta in un posto strategico e ricoperta di depositi di polveri sottili e, nella notte, ci avviamo verso casa.

Il giorno dopo, prima di tutto scarico le email.
Niente messaggi di avvenenti ragazze in bikini. Solo i saluti degli amici che chiedono conto della mia scomparsa – “Ma come? Non vi ricordate…?” - e le solite rogne accumulate in soli due giorni di assenza dal lavoro.
A colazione sento mia madre parlare al telefono con mia sorella.
La figlia più piccola, 10 anni, è all’ospedale.
Esordio di diabete mellito, provocato da reazione autoimmune, come il padre.
Mia sorella esclude l’ereditarietà. La dottoressa le ha spiegato che la bambina può aver ricevuto in dote dai genitori una propensione all’elevata reattività autoimmune, ma non il diabete in quanto tale.
Mi attraversano cupe ipotesi: se mia nipote poteva essere colpita dal diabete come da altre forme di reazione autoimmune (allergie, disturbi intestinali, forme reumatiche) e se ha sviluppato proprio il disturbo del padre, questo potrebbe significare che lei ha “appreso” dal padre la reazione autoimmune che la ha portata al diabete.
Generalizzando, è come se, tramite il modellamento, imparassimo schemi relazionali, con gli schemi relazionali stili di vita, e con gli stili di vita sindromi metaboliche.

Al pomeriggio vado a trovarla in ospedale.
La madre è impegnata a discutere con la rappresentante di un’associazione di diabetici.
La bambina è lì, seduta in disparte, esclusa dalla discussione.
Scambia un rapido bacio con mio padre. Poi abbraccia me, ma resta per qualche secondo con la mano appoggiata sulla mia schiena.
Sento una stretta al cuore e un pizzicore agli occhi, che trattengo.
E sì che dovrei essere temprato: in Africa ho visto bambini di strada ricoperti di rogna e destinati a una rapida fine e conosciuto madri con figli piccoli sul punto di morire di AIDS, loro e i figli. E ho ancora nelle orecchie la traccia mnemonica di una notte kenyana: le urla di un malcapitato sventrato a pugnalate e steso per strada a morire, nella mia più completa impossibilità a fare alcunché. Sì, il problema di mia nipote è grave, ma risolvibile: dovrà iniettarsi l’insulina in corpo quattro volte al giorno, ma se la caverà.
Allora, come mai quella stretta al cuore?
Credo di saperlo. È il suo braccio appoggiato sulla schiena. È la domanda implicita nel suo gesto: “In che mondo sono capitata, zio?”.
E io non so rispondere.

Ai bambini, prima di nascere, dovrebbero dare un libro, bello grosso, dal titolo: “Mondo, istruzioni per l’uso”. Ma mi sa che non lo fa nessuno.
L’unico avvertimento che ricevono su ciò che li aspetta è l’aria che irrompe nei loro polmoni, li fa dilatare e provoca uno spasmo: “Sveglia! Benvenuto al mondo!”.
E i bambini gridano di sorpresa e di dolore.
Anche i Mallos, che spirano un che di gelido, essenziale e incontenibile, urlano: “Sveglia!”.
E noi, arrampicatori con giunture usurate che scricchiolano, proviamo paura e, qualche volta, accettiamo la sfida.
Invece i buitres, quando si alzano in volo, non hanno bisogno di urlare.
Basta il battito delle loro ali nel vento.

Eccoli che arrivano.
È ora di far tintinnare la ferraglia.
Sento la tramontana che soffia.
Sento ancora qualche goccia che cade.


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